LUI È VIOLENTO, VOGLIO ANDARE VIA
Ho 32 anni e sono mamma di 4 bambine. Vivo da alcuni anni con un uomo che mi distrugge mentalmente e fisicamente. Abitiamo con mia figlia minorenne ed altre tre bimbe (da me avute con lui) di 2 anni e mezzo, 1 anno e mezzo e 6 mesi. Da tempo la situazione tra noi è degenerata: ci amavamo alla follia, poi lui ha iniziato a essere violento. Mi ha alzato le mani addosso più volte in presenza della mia bimba più grande e spesso ci segrega in casa, non permettendoci di uscire né per andare a scuola o all’asilo, né a fare la spesa. Io sono la sua serva; mi obbliga ad avere rapporti sessuali e quando mi rifiuto di averne partono insulti e violenze. Ho bisogno di aiuto: voglio andare via. Ho paura per me e per le mie bambine. Anche loro vengono maltrattate e io non ce la faccio più. Lettera firmata 🙂
LUI È VIOLENTO, VUOLE TOGLIERMI CASA E FIGLI
Gentile Avvocato, le scrivo a nome di mia sorella che, dopo l’ultima violenza di suo marito, che le ha fracassato il cellulare, non ha più la possibilità di scrivere una email. Mia sorella vive ormai da anni una situazione di violenza psicologica ed economica causata dal marito. Una decina di anni fa si è sposata con quest’uomo, già padre di una bimba a lui affidata; insieme hanno avuto un’altra figlia. Lui non ha mai lavorato, lei ha mantenuto la famiglia finché ha potuto. In seguito a una eredità, mia sorella ha riceuto un immobile, dalla cui vendita è stata ricavata una somma che il marito ha subito sperperato. Erano in affitto; hanno dovuto trasferirsi dai genitori di lui perché non riuscivano più a pagare affitto e bollette. Mia sorella si trova ancora dai suoceri, ma lui, dopo qualche settimana che si erano trasferiti, se n’è andato con un’altra donna. L’anno scorso, poi, ha avuto un figlio sia da mia sorella che dall’altra donna, a soli 15 giorni di distanza, ma non ha riconosciuto il figlio di mia sorella.
Ormai da anni, giorno e notte, minaccia mia sorella: vuole che se ne vada dalla casa dei genitori per lasciar posto all’altra donna, che è nuovamente incinta di un bimbo. Mio sorella, che vive lì con due suoi figli e la prima figlia di lui, non sa cosa fare: ha paura di perdere la bambina più grande, che non è sua figlia ma è come lo fosse, anche perché non ha un lavoro. Lui minaccia di portarle via i figli, vorrebbe mandarla via subito di casa… E le ha distrutto il cellulare. Abbiamo paura che le capiti qualcosa: lui ha violenti scatti d’ira e non è la prima volta che qualcuno deve trattenerlo. La nostra famiglia non ha le possibilità economiche per poterla aiutare: cosa può fare mia sorella? Lettera firmata 🙂
Risponde l’avvocato Silvia Bardesono
Gentilissima Signora,
con il presente parere, cercherò di rispondere ai quesiti da Lei posti nel modo più chiaro e preciso possibile.
Innanzitutto, mi preme rassicurarLa sul fatto che Suo cognato non ha diritto alcuno a pretendere l’allontanamento della moglie e dei figli dalla casa dove attualmente dimorano, nche se si tratta dell’abitazione dei suoi genitori. Questo punto è particolarmente rilevante in caso di una eventuale separazione personale dei due coniugi. Sua sorella, infatti, anche qualora decidesse di addivenire a una separazione dal marito, continuerà a godere del diritto di vivere, con la prole, presso la residenza dei suoceri. Abitazione che rappresenta nel caso di specie la casa familiare di Sua sorella e dei figli.
Sostengo e sottolineo ciò in quanto una delle maggiori tutele che la Legge predispone nei confronti dei figli minori riguarda proprio l’abitazione della casa familiare. In altre parole, l’assegnazione della stessa abitazione viene effettuata sempre a tutela dei figli e del loro interesse a non subire il trauma dell’allontanamento dall’immobile ove si è svolta la loro esistenza fino al momento della separazione tra i genitori.
Nel momento in cui la crisi tra i coniugi destabilizza i figli, appare indispensabile non modificare completamente tutta la loro vita. Proprio per questo motivo occorre mantenere ai figli la casa in quanto il trasferimento in altro luogo potrebbe accrescere angosce di perdita e di vuoto, già innescate dal trauma della separazione genitoriale.
La casa, intesa come spazio vissuto, rappresenta, soprattutto per i figli nelle vicende separatizie, il conosciuto contrapposto all’ignoto, il massimo della sicurezza spaziale, significa appartenenza, è il luogo posseduto dove i figli si strutturano e si riconoscono come esseri umani: in sintesi, il senso fondamentale di casa fa parte del substrato dell’identità stessa dei figli.
Pertanto, un figlio minore non verrà mai sradicato dal luogo in cui è cresciuto e in cui vive. E, fatti salvi i casi di gravissimi disturbi personali o dipendenze da sostanze stupefacenti (casi che non appartengono alla vicenda personale di Sua sorella) la casa familiare, soprattutto in presenza di figli minori, viene assegnata di regola alla madre. Non pare inoltre ammissibile, almeno in dottrina, l’assegnazione della casa familiare ai figli, con permanenza alternata dei genitori.
L’assegnazione della casa coniugale costituisce un istituto tipico del diritto di famiglia, non inquadrabile in alcuno dei diritti di godimento previsti dall’ordinamento: non è quindi un diritto reale, così come non è un diritto personale di godimento di fonte contrattuale (locazione o comodato). La sua funzione è unicamente quella di regolamentare l’uso dell’immobile tra due soggetti nel caso in cui essi abbiano avuto figli e abbiano convissuto con essi in una casa comune, siano essi coniugi, ex coniugi o ex conviventi more uxorio.
E ciò a prescindere dal diritto sottostante in virtù del quale essi lo occupavano durante la convivenza, diritto che non subisce modificazioni a seguito della assegnazione, sia che la proprietà spetti a uno solo, sia che spetti a entrambi. Pertanto, e mi ripeto, non ravvedo ostacoli nella circostanza che la casa in questione sia di proprietà dei suoceri.
Da quanto scritto nella Sua mail, tuttavia, non ho chiaro quali siano i rapporti di Sua sorella con gli stessi. Mi rendo conto che qualora si trattasse di una convivenza tormentata non sarebbe auspicabile – anche se pienamente nei diritti di Sua sorella – continuare a vivere nella stessa abitazione. In tal caso, stante la difficile situazione economica in cui versa Sua sorella, potrei consigliare di contattare i servizi sociali della zona di residenza e illustrare loro la necessità di trovare una collocazione diversa dall’attuale. Per esperienza personale, posso dire che i servizi sociali accolgono in mod piuttosto efficace i casi simili a questi, muovendosi con sensibilità e attenzione, con tempi però a volte molto lunghi.
Un discorso a parte, invece, è costituito dalla prima figlia del marito di Sua sorella e di cui lui stesso risulta affidatario.
In caso di separazione dal marito, Sua sorella potrebbe chiedere l’affidamento della ragazzina ma in tal caso sarebbe necessario accertare tutta una serie di manchevolezze da parte del padre nei confronti della ragazzina, sia economiche che affettive, oltre che eventuali violenze fisiche, verbali, psicologiche nei suoi confronti. A tal proposito mi preme sottolineare come, in caso di separazione giudiziale, il giudice, talvolta anche prima dell’emanazione dei provvedimenti temporanei ed urgenti, possa disporre l’audizione del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici o anche di età inferiore ove ritenuto capace di discernimento. Questo perché si ritiene che non si può ignorare l’opinione del minorenne nel caso in cui si debba decidere a quale genitore dovrà essere affidato, in quanto il minore è parte sostanziale del procedimento e portatore di interessi contrapposti rispetto a quelli dei genitori. Il minore, quindi, solo nella separazione giudiziale (non nella separazione consensuale), e solo ove ci siano contrasti rispetto all’affidamento, è chiamato ad esprimere liberamente la propria opinione e a raccontare con estrema fluidità la propria vita e le proprie esperienze, e dunque, anche i suoi intendimenti con chi vorrebbe continuare a vivere.
L’interesse minorile deve essere considerato prevalente su quello del mondo adulto.
Benché Sua sorella non sia la madre della bambina, l’opzione tra affido condiviso ed esclusivo dipende quindi ed anche dalla giudiziale verifica della rispondenza dell’uno o dell’altro all’interesse del minore: la valutazione della rispondenza all’interesse del minore dell’affido condiviso dev’essere compiuta ponendo il medesimo minore al centro dell’attività istruttoria del giudicante, anche attraverso l’ascolto del minore stesso. Ribadisco: l’audizione del minore è considerata strumento essenziale per la formazione del convincimento del giudice, ma anche strumento di attuazione del diritto del minore di esprimere liberamente la propria opinione, consentendo al giudicante di percepire, attraverso la voce del bambino, le esigenze di tutela dei suoi primari interessi. Una percezione che può seguire percorsi complessi e non limitarsi all’ascolto del minore nel corso di una udienza istruttoria.
Il giudice, in questa indagine, potrà avvalersi di tutti quei supporti che gli consentono un’effettiva percezione della volontà del minore, una volontà che non sempre traspare dalle parole o dai silenzi del bambino: ci si riferisce alle consulenze tecniche psicologiche, opportunamente estese anche ai genitori in conflitto, ma anche all’attività degli operatori dei servizi sociali, sempre pronti a monitorare la situazione familiare del minore ed a costruire percorsi di sostegno indispensabili per addivenire ad una condivisione della genitorialità.
Leggo che Suo cognato non ha mai contribuito al sostentamento economico della famiglia. La domanda più ovvia che ci si pone è quindi: chi deve provvedere, e in che misura, al mantenimento dei figli minori dopo la separazione dei coniugi?
La legge sull’affido condiviso lascia la determinazione all’accordo dei due ex coniugi. Essi sono liberi di stabilire misura e modo con cui provvedere – ciascuno per la propria parte – al mantenimento, alla cura, istruzione ed educazione dei figli. L’accordo, che deve comunque tenere conto delle rispettive capacità economiche dei due – e quindi prevedere una contribuzione proporzionale ai rispettivi redditi – deve essere poi sottoposto al vaglio del giudice che ne verifica la rispondenza all’ interesse del minore.
Solo nell’ipotesi in cui i due genitori non abbiano trovato l’accordo, la misura e il modo con cui essi dovranno provvedere al mantenimento della prole viene stabilita dal giudice stesso, che stabilirà la corresponsione di un assegno periodico di mantenimento, sempre tenendo conto delle rispettive risorse economiche dei genitori.
Nel compiere tale attività, sempre nel caso di mancato accordo tra i due ex, il magistrato dovrà seguire i seguenti criteri :
1. le esigenze del figlio;
2. il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori;
3. i tempi di permanenza presso ciascun genitore;
4. le risorse economiche di entrambi i genitori;
5. la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore.
Oggi dunque la legge impone il dovere di contribuire alle esigenze dei figli ad entrambi i genitori in proporzione al proprio reddito. Questi debbono provvedervi non solo con le rispettive sostanze ma anche con la capacità di lavoro, professionale o casalingo.
Non può il genitore sottrarsi a tale obbligo adducendo il proprio stato di disoccupazione o la difficoltà a trovare mansioni idonee alla propria formazione o qualifica professionale. Ciascun genitore è tenuto a procurarsi, tramite la ricerca di un lavoro adeguato, fonti economiche tali da consentirgli di assolvere al proprio dovere di mantenimento del figlio. Un onere economico quest’ultimo che non risponde solo ad un obbligo alimentare, ma si estende anche all’ambito scolastico, abitativo, sanitario e sociale e che soprattutto non viene meno neanche qualora uno dei due ex coniugi abbia un reddito particolarmente basso.
Il dovere di mantenimento sussiste anche nel caso di figli maggiorenni non ancora economicamente autosufficienti, sussistendo la necessità di garantire ai figli maggiorenni la certezza del mantenimento sino a quando non raggiungeranno l’indipendenza economica, sia come obbligo derivante dalla procreazione, sia per lo sfondo solidaristico che è proprio della famiglia, intesa quale unità fondamentale dell’organizzazione sociale. Non sarebbe infatti conforme con i fondamentali principi dell’ordinamento sollevare il genitore dall’obbligo di mantenimento, quando il figlio abbia raggiunto la maggiore età.
Nel leggere la Sua mail, apprendo, purtroppo, del reiterarsi di episodi di minacce e atteggiamenti violenti di Suo cognato nei confronti della moglie. Mi viene da chiederLe: Sua sorella ha mai sporto formale denuncia querela nei confronti del marito? I suddetti episodi con quale cadenza si sono verificati? E sono stati rivolti esclusivamente nei confronti della moglie o anche nei confronti dei minori?
La presenza dei figli deve essere attentamente considerata. Anche se non è sempre facile e possibile trovare il modo per sotterrare l’ascia di guerra e per giungere il prima possibile ad una gestione non conflittuale almeno di quegli impegni che costituiscono gli ambiti degli obblighi genitoriali.
E la soluzione è sicuramente la separazione consensuale o la regolamentazione dei rapporti tra genitori e figli, in via consensuale.
Esistono due tipi di separazione e di modalità di regolamentazione dei rapporti tra genitori e figli: quella consensuale e quella giudiziale.
Intendo, infine, accennare brevemente entrambe le tipologie di modo da permettere a Sua sorella di apprendere a grandi linee quali sono gli eventuali passi da percorrere.
Separazione consensuale
La separazione consensuale si fonda sull’accordo dei genitori di separarsi.
La separazione consensuale è quella che recepisce un accordo raggiunto dai coniugi. L’accordo riguarderà sia tutte le questioni relative ai figli (affidamento, collocamento, regolamentazione delle visite, contributo al mantenimento, assegnazione della casa coniugale etc.) che le questioni relative ai rapporti personali e patrimoniali tra i coniugi (autorizzazione a vivere separati, eventuale contributo al mantenimento del coniuge più debole, eventuale divisione di beni comuni e arredi).
I coniugi possono rivolgersi ad un solo legale oppure prenderne uno ciascuno. Questo è preferibile in caso di alta conflittualità in quanto tra legali è più facile comunicare e fare valere le ragioni del cliente, avendo sempre, comunque, come obiettivo quello della tutela e della salvaguardia dei figli.
Le comunicazioni tra professionisti sono, ovviamente, scevre da tutta quella parte emotiva che i genitori sentono e che, per forza di cose, si trasferisce anche nelle loro comunicazioni.
L’iter per arrivare all’accordo è variabile a seconda della complessità sia dei rapporti personali tra i coniugi e con i figli, sia delle questioni economiche e/o patrimoniali da considerare. Si va dalle situazioni in cui i coniugi trovano da soli una soluzione a quelle, più frequenti, in cui si rendono necessarie lunghe trattative tra i rispettivi legali, anche in collaborazione con i mediatori familiari per ciò che riguarda l’obiettivo del miglioramento delle comunicazioni e delle relazioni tra i genitori al fine di una loro migliore gestione degli interessi dei figli.
Una volta raggiunto l’accordo il procedimento è veloce, in quanto consta di una sola udienza dinnanzi al presidente del Tribunale del luogo ove la famiglia ha la residenza.
L’accordo dovrà avere caratteristiche che consentano di reggere con il tempo e presuppone una trattativa fondata sull’analisi delle varie esigenze e interessi, finalizzata a dare un nuovo assetto alle relazioni della famiglia disgregata e destinate a scandire il ritmo delle reciproche relazioni per il periodo successivo alla separazione (o al divorzio), ma possono essere anche tutte quelle pattuizioni alla cui conclusione i coniugi intendono comunque ancorare la loro disponibilità per una definizione consensuale della crisi coniugale; e tra queste ultime non può non rientrare l’assetto, il più possibile definitivo, dei propri rapporti economici, con la liquidazione di tutte le pendenze ancora eventualmente in atto.
L’ammissibilità delle pattuizioni tra i coniugi in crisi trova il suo principale fondamento nella generale affermazione del principio di autonomia privata (o negoziale). L’accordo di separazione è atto unitario ed essenzialmente negoziale, soggetto a controllo ma innanzitutto espressione della capacità dei coniugi di autodeterminarsi responsabilmente, tanto che in dottrina si è indicata la separazione consensuale come uno dei momenti di più significativa emersione della negozialità nel diritto di famiglia.
Il Tribunale non può rifiutare l’omologazione entrando nel merito della decisione assunta dai coniugi, essendo sottratto il potere di valutazione delle ragioni che li hanno portati alla manifestazione della volontà di separarsi. L’omologazione può tuttavia essere rifiutata se i coniugi non adottino adeguate soluzioni riguardo all’affidamento ed al mantenimento dei figli. Solo l’interesse di questi giustifica il sindacato del giudice, che può sfociare nella richiesta di modifiche dell’accordo dei coniugi in contrasto con essi.
Anche nel caso di separazione della coppia di fatto, i genitori possono addivenire ad un accordo consensuale che regolamenti:
• l’affidamento dei figli,
• il loro collocamento,
• i rapporti tra genitori e i figli,
• il contributo al loro mantenimento,
• l’assegnazione della casa familiare.
Detto accordo viene trasposto in un ricorso congiunto che il Tribunale, previa verifica, ratifica recependolo in un proprio decreto.
Questo decreto è il titolo formale che sancisce gli impegni assunti e può essere munito di formula esecutiva per farli valere in via forzata in caso di mancato rispetto (ad es. mancato rispetto obbligo di mantenimento).
È importante sottolineare come gli accordi possono essere sempre modificati, ove si modifichino le condizioni di fatto che hanno dato origine agli accordi stessi (es. mutamento delle condizioni economiche di un genitore, trasferimento di residenza, mutamento delle condizioni fisiche-psichiche, ecc…).
Separazione giudiziale
Alla separazione giudiziale si fa ricorso nel caso in cui non vi sia accordo tra i coniugi e non può pertanto addivenirsi ad una separazione consensuale.
Il procedimento di separazione giudiziale, diversamente dalla separazione consensuale, ha inizio con un ricorso depositato in Tribunale da uno dei due coniugi. Nel ricorso vengono indicati fatti essenziali e i motivi di diritto su cui si fondano le domande rivolte al Giudice e si allega tutta la documentazione necessaria e utile a illustrare al meglio la situazione.
Il Tribunale fissa quindi la c.d. udienza presidenziale (ovvero davanti al Presidente del Tribunale) e assegna, al soggetto che ha depositato il ricorso, un termine per notificare all’altro coniuge, tramite l’Ufficiale Giudiziario, il ricorso e decreto di fissazione dell’udienza; con la notifica il coniuge viene a conoscenza delle richieste del coniuge che ha depositato il ricorso, e della data dell’udienza, dovrà quindi nominare un difensore per predisporre una memoria difensiva e depositarla in Tribunale, nei termini indicati dal Giudice.
1° tentativo: tentare di ricondurre a separazione consensuale
All’udienza presidenziale i coniugi devono comparire personalmente, con l’assistenza dell’avvocato, dinnanzi al Presidente del Tribunale il quale tenta la conciliazione, cioè ascolta i coniugi in presenza dei loro difensori (talvolta separatamente, talvolta tutti e 4 insieme) e verifica la possibilità e la disponibilità a raggiungere un accordo di separazione consensuale. Se ciò risulta possibile, la separazione si trasforma da contenziosa a consensuale, direttamente nelle stessa udienza o, più spesso, in una successiva, poiché può essere necessario del tempo per precisare e o formalizzare meglio l’accordo raggiunto. Va detto che tale trasformazione può avvenire anche in una qualsiasi fase successiva del processo.
Se non si riesce a raggiungere l’accordo, il Presidente pronuncia i provvedimenti presidenziali urgenti e sommari con riguardo alle questioni fondamentali della separazione, ovvero:
• autorizza i coniugi a vivere separati,
• decide sull’affidamento dei figli,
• sul loro collocamento (cioè sulla loro residenza con l’uno o con l’altro genitore),
• sulla regolamentazione dei rapporti tra i genitori e figli (specificando i tempi di visita),
• sul contributo al loro mantenimento,
• sull’assegnazione della casa coniugale,
• sull’eventuale contributo al mantenimento da parte di uno dei due coniugi a favore dell’altro, economicamente più debole.
Si tratta di provvedimenti provvisori, ovvero, sempre modificabili, sia nel corso del processo, che al termine, con la pronuncia della sentenza; sono provvedimenti cd. coercibili, possono cioè valere come titolo esecutivo da fare valere in caso di inosservanza del coniuge agli obblighi stabiliti dal giudice. Sono provvedimenti reclamabili in Corte d’Appello.
Se i coniugi non raggiungono un accordo, quindi, il giudizio prosegue dinnanzi al Giudice Istruttore; si apre una vera e propria fase istruttoria, che comporta la presentazione di diverse memorie scritte difensive da parte dei legali, con produzione di documenti, assunzione di testimoni, eventuali consulenze tecniche d’ufficio, ascolto dei minori, indagini dei servizi sociali, indagini della Guardia di Finanza e della Polizia Tributaria, accertamenti bancari, etc.
Per tornare a una delle questioni da lei citate (l’eredità sperperata da Suo cognato), faccio presente che le questioni riguardanti eventuali debiti tra coniugi di somme di denaro o la divisone di beni mobili e immobili comuni, o le questioni risarcitorie, non rientrano nella competenza del giudice della separazione e dovranno essere affrontate a parte, in un diverso giudizio. Il procedimento avrà una durata media di tre anni e si concluderà con una sentenza, che deciderà in merito alle richieste dei coniugi e, comunque, nel rispetto degli interessi dei figli minori.
Avv. Silvia Bardesono, Torino