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La mia estate di follia

4.9
(12)

UN’ESTATE AL MARE… DA DIMENTICARE 🙂

Se pensate che la vostra estate non sia stata un granché, leggete della mia.

Un paradiso abitato da diavoli

Mi trovo in uno dei più bei posti del mondo, davanti a un panorama spettacolare: le rocce di un’isola meravigliosa vicinissime, che sembra di poterle raggiungere a nuoto, mare blu ed alberi a perdita d’occhio; intorno a me solo la brezza marina, lo stormire delle fronde e i suoni campestri di uccellini, caprette, galli, cicale e grilli. Nessuna traccia di persone. Per adesso.

Tra qualche ora, l’idillio si romperà. L’aria verrà trapassata da urla giovanili e la piscina (c’è una piscina, sì: di che ti lamenti, direte voi, ma leggete…) verrà invasa da una torma di ospiti (altrui) che, non paghi di aver mangiato, bevuto, fumato e sparso rifiuti, cicche e cianfrusaglie sul solarium, con la pasta al forno e la torta – che a me non vengono mai offerte – sullo stomaco, metteranno a rischio le loro vite tuffandosi, anche a bomba, nella ‘mia’ piscina, per intraprendere partite di pallanuoto che dureranno fino alle 20:30, se non oltre. Le squadre, composte da un cinquantenne e da una mezza dozzina di ragazzi tra i 18 e i 30 anni, si accaloreranno a segnare punti lanciando uno dei quattro palloni sopra la rete galleggiante, impedendo il nuoto o il riposo a chiunque, per poi quietarsi, si fa per dire, a ora di cena. A quel punto, maschi e femmine in costumi bagnati correranno a cambiarsi e phonarsi, chi in casa chi nello spogliatoio che in pura teoria apparterrebbe anche a me, per poi cenare in loco con una pizza nelle aree comuni, o nelle rispettive case, in attesa di celebrare la nottata: uscita verso mezzanotte, giro di locali Covid-full per bere superalcolici con il benestare dei genitori, ritorno a casa in automobile, guidando ubriachi tra i tornanti, tra le 2:30 e le 6:30 – il che spiega perché, almeno di mattina, possa stare tranquilla (e la notte mi svegli per gli schiamazzi).

A proposito di Covid: gli ospiti vengono, quasi tutti, dalla Milano assurta alle cronache per numero di contagi e dalla vicina Svizzera italiana, parimenti ricca di contagiati. Tra i miei vicini, dai quali mi tengo debitamente alla larga, la paura del virus non vige: forse perché l’hanno già avuto e non si sono premurati di avvertirmi (il sospetto è lecito: il cinquantenne ogni tanto parla di febbre e quarantena, gli altri si limitano a tossire spargendo droplets open air), forse perché nella schiera di italiani dimentichi dei sacrifici del lockdown che tutti, a causa di pochi, abbiamo fatto. La memoria corta gli permette dunque di invitare amici e parenti nel primo turno-piscina, per poi allestire nel secondo turno apericene sul ‘mio’ solarium, con musica lounge, bagno notturno, assembramenti promiscui, cambio d’abiti (dal vestito da sera al costume al reggiseno e tanga, più pratici per le performance nell’appartato spogliatoio), fino alla sortita all’alba dal parcheggio, che finalmente viene sgombrato da auto e motorini.

Una sorveglianza… da cani

Ecco, il parcheggio: almeno un contatto con gli ospiti debbo averlo, ogni pomeriggio, quando mi tocca scendere, col solleone che rende rovente l’aria e la mia auto, a chiedergli gentilmente di spostare il suv o la station wagon che, nello stretto spazio del nostro cortile in cui i miei vicini riescono a stipare 5 macchine e una moto, impedisce la manovra alla mia utilitaria. Devo uscire infatti a gettare la spazzatura. Qui vige una raccolta differenziata dalla severità draconiana, e guai a lasciare il proprio sacchetto in orario o giorno non consentito, o a inserirvi materiali non autorizzati: la multa, se passa il Vigile in divisa blu, è garantita. Per questo, io sono sempre molto attenta alla raccolta differenziata, soprattutto dal giorno in cui, mentre lavoravo, sono stata raggiunta dalla telefonata del custode del parco, il quale, messi al bando i convenevoli, mi ha detto a chiare lettere, con colorite locuzioni, che non mi azzardassi mai più a inserire foglie nell’organico (!), o a lasciare mobiletti di plastica nel giorno del “multimateriale” (plastica e metallo; per la cronaca, il mobiletto non fu preso neanche nel giorno dell’indifferenziato).

Il custode, del resto, è il tutore dell’ordine (morale) del condominio. Quanto all’ordine materiale, non ve n’è alcuno: egli si limita, per interposta persona – cane, figlioli, moglie, telecamera? – a sorvegliare per rari momenti il tratto di vialetto sotto casa sua, forche caudine sotto le quali passo con circospezione. Il custode, infatti, da quando ho spiegato ai miei familiari che non è più possibile farlo entrare in casa in nostra assenza (tradizione che risaliva alla passata generazione, e che lui aveva interpretato con confidenza facendomi trovare la casa e il terrazzo devastati – ma questa è un’altra storia), insieme a sua moglie non mi saluta più, né mi consegna la posta (che detiene finché non vado a prenderla), ma mi guarda in cagnesco, meno bonariamente del suo pitbull. Intanto, nei viali del ‘parco’ crescono floride le erbacce, l’asfalto si riduce a brecciolino, da muretti e scarpate rotolano massi e nidiate di topi scorrazzano felici, salvo poi andare a morire stecchiti giusto davanti alla mia porta di casa – attualmente ne ho tre che si stanno decomponendo: avevo sperato che provvedessero le formiche, ma sono più efficaci con i gechi.

Anche le formiche, nel loro piccolo, mi fanno inc…

Le formiche. Abitano qui forse da millenni e si ritengono giustamente padrone del territorio. In casa, non v’è fessura (e ce ne sono tante!) che non sia stata violata dalle formiche, che con la scusa di una minuta briciola o di un insetto moribondo entrano in lunghe file e percorrono muri, pavimenti e mobili come se fossero a casa loro. Noi, abituati a questo trend da decenni, non ci facciamo più caso. Tuttavia, una mattina in cui mi sono svegliata allegramente e ho trovato i tre bidoni della pattumiera Trypla (reperita al settimo negozio dopo un pellegrinaggio per varie località) neri di formiche, mi sono armata di insetticida e, dopo cinque ore di lotta, ho avuto la meglio. I ragni, invece, li ho risparmiati. Grandi, sottili, eleganti, ma anche piccoli e neri, occupano tranquilli soffitti e angoli delle pareti, con preferenza per le stanze dove si dorme o si mangia. Li lascio stare; se proprio mi va di liberarmene, infilzo un bicchiere di plastica sulla punta di una canna da pesca e li catturo, per poi rilasciarli in natura prima che mi cadano in testa. Con la canna, che non ha mai preso un pesce, spingiamo fuori di casa all’occorrenza gechi e pipistrelli, uno dei quali l’altro giorno ha svolazzato per il mio salotto, appollaiandosi persino sul divano, prima di essere cacciato eroicamente da mio marito (che, pochi giorni prima, aveva già preso un centopiedi).

La fauna più comune, qui, sono però le zanzare. A furia di essere schiacciate e sottoposte al venefico aroma dei fornellini, che le ha sempre soltanto addormentate causando il loro – e il mio – risveglio all’alba, hanno affinato le loro tecniche di sopravvivenza, introducendovi il mimetismo e forse la maschera antigas. Ho affinato le mie tecniche anch’io e dunque, con un nuovo tipo di fornellino, le finestre chiuse e il mitico panno per i vetri 100% pve (cattura la zanzara senza insospettirla, non lascia tracce sui muri, si sciaqua facilmente), me ne libero subito. Sono lontani i tempi delle mie battute di caccia alle prime luci dell’alba, fino a 15 prede alla volta. A far diminuire la presenza delle zanzare, anche l’immane opera di pulizia e giardinaggio da me svolta da un paio d’anni, per rimuovere, armata di scopa e paletta, cesoie e guanti da giardino, gli eccessi della natura.

Les feuilles mortes

Se qualcuno pensa che le foglie cadute possano decomporsi nel giro di qualche mese diventando fertile humus, ebbene, sappia che non è così. Perché le foglie di ulivo si decompongano ci vogliono anni. Dopo ore e ore di lavoro quotidiano per due mesi, l’anno scorso, ho liberato la terra dallo strato di fogliame paleolitico ed erbacce che costituiva l’ombroso riparo di formiche e insetti, salvandomi per miracolo dallo choc anafilattico che le 120 punture di zanzara in un sol giorno, tutte dalle ginocchia in giù, avrebbero potuto causarmi. Le aiole erano linde, ma come smaltire le tonnellate di residui organici che avevo prodotto? Scartata l’idea di affittare un furgoncino (troppo piccolo), noleggiare un camion (troppo costoso), sversare altrove (sono per la legalità), pagare qualcuno (avrebbe sversato), ho risolto trasformando la mia auto in uno shuttle tra casa e la “piattaforma ecologica” – una discarica dove un gentile impiegato accetta scorie nucleari senza scomporsi, mentre il suo collega perquisisce i sacchetti, ne respinge metà contenuto e poi ti costringe ad arrampicarti su un cassone per versarvi, aprendoli uno a uno, il contenuto dei tuoi 20-30 sacchi giganti di fogliame, di cui una parte ti vola in testa. Quest’anno, però, per andare alla piattaforma ho dovuto prendere appuntamento. Indossata la mascherina d’obbligo (per tutti, tranne che per gli impiegati), e passata la perquisizione di Cerbero, che ha respinto le mie ciabatte in gomma che dopo un decennio hanno tirato le cuoia) mi sono liberata delle foglie, almeno di quelle che erano entrate nel portabagagli e nel vano passeggeri (lo scorso anno ricoprii di sacchi anche il tettuccio dell’auto).

Più che una casa, un campeggio. Eppure…

Al ritorno, mi sono sentita assai meglio. Dopo tre settimane di spazzamento, disinfestazioni, pulizie, era giunto il momento di cominciare le vacanze. Non avevo avuto molto tempo per me stessa; e dire che mi sveglio tra le 6:00 e le 6:30 per il caldo torrido, la luce che entra indisturbata attraverso le persiane, il rumore del filtro della piscina e della motoretta truccata del custode, le conversazioni delle ragazze che al piano di sotto rientrano all’alba. L’alba: il solo momento in cui mi godo le vacanze. La casa è un po’ più fresca, almeno fino alle 7:30. Mio marito dorme. L’andirivieni degli ospiti non è ancora incominciato. Faccio colazione sul terrazzo ammirando l’orizzonte infinito e mi propongo di iniziare la giornata leggendo un bel libro, o lavorando al pc – almeno finché non mi si appanna la vista: i miei occhiali, per un recente errore dell’ottica, sono di una gradazione sbagliata. Poi mi ricordo che devo riporre i piatti che ho lavato la sera prima (lo faccio tre volte al giorno: la lavastoviglie è da due anni in corto circuito), che devo preparare un’altra colazione, riordinare, pulire, stirare…

Oh, e devo anche richiamare l’idraulico: dopo che è venuto, a metà vacanza, per rendere finalmente agibile il mio bagno (a causa di una perdita, ero costretta a tenere chiusa la chiave d’arresto, aprendola solo all’occorrenza e usando lavabi e wc sparsi), mi imbarazza un po’ dirgli che ora perdono due scaldabagni e un rubinetto. In cucina non c’è acqua calda; per lavare i piatti, sono costretta a prepararla con l’ausilio di un bollitore elettrico che previdentemente i miei avevano comprato, prima di affittare a ignoti casa mia (ma questa è un’altra storia). Nonostante il boiler perda, il suo potere riscaldante è efficacissimo: ricordo ancora quando, negli anni Ottanta, un prozio ottuagenario rimase gravemente ustionato. Per questo – e per ragioni economiche: qui le bollette costano quanto una serata al Billionaire – lo accendo per 5 minuti ogni due giorni: l’acqua, a causa della temperatura subtropicale, esce comunque tiepida.

Canzoni stonate

Il caldo è fortissimo in agosto – salvo lasciare spazio a un clima meraviglioso non appena si torna in città. Nel pomeriggio, i miei vicini giacciono mummificati su sdraio e materassini, la figliola palleggia vicino alla testa di mio marito, ascoltando a ciclo continuo Marco Masini in “Vaffanculo” (e se io mettessi su “Bella stronza?”), e io cerco di difendermi dalla calura con l’aria condizionata. Il mio appartamento panoramico piace molto al vicino, che a inizio vacanza mi ha chiesto con insistenza, a voce, per SMS, per email, di poter dormire con me e mio marito, abbandonando il tetto coniugale. Non pensate al male: egli lamenta che i 7 posti letto a sua disposizione non bastano per loro 5 (il coniglio non conta: dorme, mangia e va in bagno sulle scale interne comuni, rendendole impraticabili).

Ho dovuto rifiutargli l’alloggio, non tanto per evitare promiscuità, quanto perché egli è la stessa persona che, nelle altre stagioni, guida un’accanita battaglia legale contro di me. Il pover’uomo non se n’è fatto una ragione e, dopo aver tentato invano di penetrare nell’appartamento (che avevamo ben difeso, piantonandolo senza uscire per una settimana), ha manifestato il suo disagio alla prima occasione, inseguendoci sulla piscina. Mentre ritornavamo di corsa a chiuderci in casa, sotto lo sguardo allibito degli ospiti milanesi, la figliola ci lanciava coloriti appellativi.

L’ospite è sacro. Anche quando ruba?

Può sembrare che io non sia ospitale; in realtà, i vicini entrano in casa ‘mia’ quando vogliono. In possesso delle chiavi di casa, approfittano della mia assenza per godere del condizionatore, per ricaricare il cellulare, per fare la doccia o i loro bisogni, per riposare, ma anche per alloggiarvi con il cane. Non sempre ripuliscono le tracce del loro passaggio; sempre, però, si ricordano di asportare dalla casa oggetti utili, quali carta igienica, tonno sott’olio, tovagliette americane, mobilio e persino soldi. Durante l’ultima delle sue scorribande, il capofamiglia è stato colto sul fatto, mentre usciva da casa portando via una scala che, dopo due anni che la chiedevo, era servita all’idraulico.

Sulle prime non gli ho detto nulla. È stato solo un’ora dopo, quando ha sostenuto il suo ‘diritto’ di entrare in casa mia ogni volta che gli pare (“soprattutto se mi dici di non farlo!”), che ho dovuto spiegargli con decisione che non ha titolo per questi disinvolti comportamenti. Non l’ha presa bene. Mentre si protendeva urlando a pochi centimetri dal mio viso, a occhi sbarrati, e io indietreggiavo sperando di non essere colpita da droplet virulenti, è intervenuta la figliola, che, ignara di star compiendo una lunga serie di reati penali, mi ha spintonato-ingiuriato-ferito, sempre dicendo d’esser calma. Mentre annaspavo per non cadere in piscina (o addio messa in piega faticosamente ottenuta: il phon è difettoso e se lo accendo sono costretta a non spegnerlo più), per maggior sicurezza la ragazza mi ha lanciato una sdraio addosso. A nulla è valso l’improvviso arrivo di un’altra vicina che, attirata dal trambusto, si è affacciata giusto per il tempo di constatare il dramma ed è fuggita con una scusa; la stessa vicina che, qualche giorno dopo, è andata via indignata dopo che le avevo chiesto con gentilezza perché mai il suo compagno – in quel momento steso sul mio lettino a fingere di dormire – avesse raccontato fantasiose falsità su di me ad amici comuni durante un party.

Vita sociale Covid-free

Non mi invitano più alle loro cene, questi vicini; ma è come se fossi insieme a loro, quando le voci festanti arrivano da terrazzi e giardini nella camera da letto che condivido con mio marito e le zanzare (la zanzariera c’è, ma è bucata). Quando invece ci incontriamo dal vivo, non mi salutano. Pensate che facciano finta di non vedermi? Ma no, sono miopi…

Le cene estive sono comunque un ricordo lontano. Ho tacchi e abito da sera nell’armadio, ma uso soltanto calzoncini e costume: la vita sociale ai tempi del Covid-19 è bandita. In verità, un paio di volte ho sgarrato: sono andata a trovare due amiche. Una ha 84 anni e l’ho conosciuta l’altro giorno, quando il mio unico paio di bermuda si è rotto (è una sarta); l’altra ne ha 82 e una bella casa con giardino che condivide serenamente con le figlie, il genero, i nipoti, gli amici dei nipoti, il gatto e la colf. C’è armonia tra loro e, anche se in inverno vivono in tre Paesi di due continenti diversi, in estate tornano a essere una grande famiglia.

A proposito: se vi state chiedendo come mai non abbia denunciato le molestie, i furti, gli attacchi, le violenze fisiche e morali dei miei vicini, una spiegazione c’è. Mi spiace dirvelo, ma sono la mia famiglia.

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Pubblicato il Famiglia