JHUMPA LAHIRI: IL MIO PRIMO AMORE È LA LETTURA
Dal vivo, Jhumpa Lahiri è ancora più bella che in fotografia. I lineamenti raffinati e gli occhi seri, scuri e profondi non lasciano frequenti concessioni al sorriso, forse perché, se si potesse leggerle nel pensiero, troverebbe noioso tutto questo parlare delle sue origini bengalesi, delle caratteristiche del suo linguaggio letterario ‘internazionale’, delle sue influenze (multi)culturali. Prima ancora di essere pluripremiata esponente della letteratura indo-americana – per la quale è stata insignita nel 2014, da Barack Obama, del prestigioso riconoscimento della National Humanities Medal, con la motivazione di aver “illuminato l’esperienza indiano-americana in narrazioni di estraniamento e appartenenza meravigliosamente elaborate” – Lahiri «è una scrittrice straordinaria».
A presentarla così al pubblico, nella sede della Fondazione Premio Napoli in piazza del Plebiscito, è stato lo scrittore Domenico Starnone: nel dicembre 2018, la Fondazione ha assegnato a Jhumpa Lahiri il Premio Napoli Internazionale, nell’ambito della 64esima edizione del Premio Napoli Speciale, per ricompensare “il costante impegno della scrittrice statunitense di origini indiane volto ad abbattere i recinti di un’identità fondata sulla nascita o sulla religione”.
Di barriere, Lahiri ne ha abbattute non poche, a cominciare da quelle geografiche: nata in Inghilterra nel 1967 da genitori di Calcutta, ha vissuto a lungo nel Rhode Island, per poi sposare un giornalista greco-guatemalteco, Alberto Vourvoulias-Bush, e vivere con lui e i due figli Octavio e Noor tra gli Stati Uniti – insegna a Princeton – e l’Italia (ha una casa a Trastevere, dove ha vissuto tre anni e dove ritorna con la sua famiglia). E poi, quelle letterarie: da esordiente ha vinto, nel 2000, il Premio Pulitzer per la narrativa, con la raccolta di short stories L’interprete dei malanni (Marcos y Marcos, 1999).
Nel 2015, un nuovo riconoscimento letterario: il Premio Internazionale Viareggio-Versilia, per il volume autobiografico In altre parole (Guanda, 2015), storia di un ‘colpo di fulmine’ di Lahiri per la lingua italiana. Già, perché la giovane Jhumpa che da New York, appena laureata, visita Firenze resta affascinata dalla lingua di Dante al punto da voler trasferirsi in Italia per impararla. E lo fa talmente bene che decide di scrivere libri in un linguaggio che non è il suo. Padroneggiarlo le sembra all’inizio un obiettivo distante e irraggiungibile, come attraversare a nuoto un lago profondo, finché non ce la fa: “Per conoscere una nuova lingua, per immergersi, si deve lasciare la sponda. Senza salvagente. Senza poter contare sulla terraferma”, scrive.
Una volta compiuto il ‘battesimo dell’acqua’, si vara in un’impresa solo apparentemente impossibile: trasportare in una lingua ‘altra’ e difficile le sue doti di autrice. Cosa che non è un problema per lei: al di là della forma, ci ricorda Starnone (i cui testi Lacci e Scherzetto sono stati tradotti in inglese da Lahiri, con i titoli di Ties nel 2014 e Tricks nel 2018), «i libri vanno giudicati per il loro contenuto. Se scrive racconti, Jhumpa racconta, perché è un’abilissima scrittrice. Trasforma ogni dettaglio in un luogo simbolico; trasporta materia pesante, piena, che fa male, come avviene in L’omonimo; rompe ciò che ci unifica, con un processo doloroso che porta al vuoto e non alla felicità».
Sarà per questo che non sorride spesso? Lo fa, però, quando parla di suo marito e dei suoi figli. A loro ha dato una seconda patria, l’Italia. «Non abbiamo mai lasciato completamente la città: a Roma rimane, da sei anni, una delle nostre case. Volevo sperimentare la condizione del vivere in un altro luogo, per allontanarmi dal mio passato, per complicare le cose.»
Ed è una donna complicata, Jhumpa Lahiri. «Mi pongo domande esistenziali, per le quali non trovo una spiegazione. Perché scegliamo la persona che amiamo? Perché una determinata città ci colpisce, come Roma ha colpito me? È una questione di “destino”», virgoletta nell’aria. «Le domande sono sempre le stesse, le risposte non arrivano mai. Ogni mio libro è un tentativo di trovare soluzioni ai dubbi che mi ponevo vent’anni fa, prima di diventare moglie, madre, scrittrice. Non esiste una risposta alla domanda: perché la vita è così? Però possiamo continuare a interrogarci».
Perché, allora – viene naturale chiederle adesso che Guanda ha dato alle stampe il volume Dove mi trovo, suo primo romanzo in italiano – scegliere una lingua ‘difficile’, stabilendo una tappa della sua carriera letteraria nella cultura italiana? Forse per complicare ancora una volta le cose, in un’ulteriore sfida con se stessa. «Per quanto in sei anni abbia compiuto notevoli progressi nell’apprendimento dell’italiano», spiega Lahiri, «nell’usarlo c’è sempre uno spaesamento, un disagio. Il titolo del libro si riferisce anche alla situazione linguistica: in questo momento, come scrittrice, ‘mi trovo’ in Italia, ma non sempre sono a mio agio in questa lingua nuova; e tale condizione mi consente di pormi le domande di sempre con un diverso spirito. Se, negli Stati Uniti, provo un senso di estraneità minore di quello che avvertono i miei genitori, quando inizio a scrivere in italiano mi sento straniera in campo artistico-letterario. Ma ogni forestiero si sente a casa da qualche parte e poiché io, a livello linguistico, sono diventata straniera in Italia, ciò, inaspettatamente, mi fa sentire più radicata».
A proposito di radici, c’è chi pensa che Lahiri dovrebbe continuare a scrivere in inglese. «Alcuni ritengono sbagliata la scelta, che altri hanno definito “coraggiosa”, di comporre nella vostra lingua; dicono che, come scrittrice, dovrei tornare alle mie origini. Scriverò ancora in inglese, ma oggi motivi artistici, estetici, personali mi spingono a desiderare di ‘giocare in un altro campo’. In Italia mi sento accettata per questa mia fase sperimentale; non altrettanto negli Stati Uniti. Ma andare ‘oltre’ è sempre stato il mio progetto.»
Un progetto, se vogliamo, già familiare: il padre di Jhumpa ha lasciato l’India nel 1964 perché aveva voglia di vivere in maniera diversa e lei è nata nel 1967 a Londra. «Le mie origini costituiscono una rottura, anche rispetto all’idea di famiglia, che per mia madre si identifica con gli abitanti di un intero villaggio, per me è formata da quattro persone. Il mio tema costante è la metamorfosi, il che è già una contraddizione nei termini. Tutta la vita è una grande contraddizione e anche la scrittura lo è; ma è pure il tentativo di saldare i ricordi del passato con la più matura consapevolezza del presente.»
Allontanarsi, dunque, per poi ritornare; avvicinarsi, ma anche mantenere le distanze: Lahiri lo ha fatto nella vita personale e nella scrittura. Dove mi trovo inizia con una morte e continua con una potenziale storia d’amore; non ha una struttura da romanzo, ma funziona come tale; si allontana dalla concretezza della tradizione letteraria statunitense non citando dettagli come nomi propri e strade, raccontando tutto ciò che è volatile, temporaneo, fuggevole, cercando di raggiungere l’essenza delle cose. E parla di una donna che vuole esplorare, superare le barriere, colmare le distanze: “Una piccola valigia ai piedi da fare e da disfare […] Esiste un posto dove non siamo di passaggio?”
Rompere con la tradizione della grande letteratura americana, spostandosi verso quella italiana, ha fatto sì che Jhumpa Lahiri fosse paragonata a Goffredo Parise, all’Italo Calvino de Le città invisibili, a Clara Sereni in Manicomio primavera. Che siano state per lei influenze letterarie forti o no, quel che è certo è che per l’autrice i libri sono molto più di una passione. «Il primo amore della mia vita, che sarà probabilmente l’ultimo, è la lettura: spero di morire con un libro tra le mani. Anche innamorarmi di questa attività è stata una rottura.»
Ma ci si può innamorare anche di una parola: Lahiri confessa il colpo di fulmine per un termine del dialetto partenopeo. «Me lo ha spiegato un amico napoletano mentre mi portava rilassatamente in giro per la città, tra shopping natalizio, mostre e ristorantini. Significa ‘indugiare’, ‘perdere tempo’, proprio come stavamo facendo noi. Intallearsi.»
E, di fronte a questa parola fantastica che in poche lettere racchiude una filosofia di vita, Jhumpa Lahiri finalmente ride di cuore.
- Nilanjana Sudeshna Lahiri, detta “Jhumpa“, nasce a Londra l’11 luglio 1967, ma si trasferisce negli Usa a due anni.
- Alla Boston University consegue tre lauree (inglese, scrittura creativa e letteratura comparata) e un dottorato in Studi Rinascimentali.
- Nel 2000 vince il Premio Pulitzer per la narrativa, con la raccolta di racconti L’interprete dei malanni.
- Dal suo secondo libro, L’omonimo del 2003, la regista Mira Nair trae nel 2006 il film The Namesake.
- Con il romanzo Una nuova terra vince, nel 2009, il Premio Gregor Von Rezzori per la migliore opera di narrativa straniera.
- Nel 2012 viene nominata membro dell’American Academy of Arts and Letters.
- Il suo romanzo La moglie (The Lowland) è tra i finalisti al Man Bookers Prize 2013.
- Nel 2014 fa parte della giuria della 71esima Mostra Internazionale d’Arte cinematografica di Venezia.
- Nel 2015 il suo libro autobiografico In altre parole vince il Premio Viareggio-Versilia. Nello stesso anno riceve a Siena la laurea honoris causa in Lingua e Cultura Italiana.
- Nel 2018 Guanda, pubblica il suo primo romanzo in italiano, Dove mi trovo.
Immagine di Jhumpa Lahiri: fotografia di Chiara Santoianni (C)