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Mamma cassaintegrata, senza diritti

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TANIA 🙂 DIVENTA MAMMA, AL LAVORO NON HA PIÙ DIRITTI

Incinta al lavoro, senza il diritto di sedermi

Inizio a lavorare per un’azienda familiare medio-piccola della bassa padovana, offrendo la massima disponibilità e flessibilità oraria (9 ore al giorno e i sabati); dopo tre mesi da interinale vengo assunta a tempo indeterminato. Ma dopo 9 mesi mi scopro incinta. Avviso subito il titolare, chiedendogli un cambio di mansione, perché sollevo carichi pesanti; questi, molto arrabbiato, urla che se lo aspettava prima o poi e che non mi cambierà mansione perché non ne ha disponibili (falso: la sua amante, con meno competenze e abilità di me, lavora tranquillamente seduta). Vedendolo cosi alterato e temendolo immensamente (è alto 2 metri di cattiveria), cerco di venirgli incontro, dicendogli che resto se la salute me lo permette: mi munisco così di uno sgabello, su cui ogni tanto mi siedo pur continuando a lavorare.

Dopo due giorni lo sgabello sparisce chissà perchè e sono convocata in ufficio, dove mi viene detto che in seguito alla crisi il lavoro è diminuito e che verrò messa in cassa integrazione, solo io in tutta l’azienda. Che ingratitudine! Demoralizzata e stanca della situazione parlo con un consulente, che mi spiega che per la legge sulla sicurezza sul lavoro avrei diritto alla maternità anticipata per lavoro faticoso. La prendo, e per fortuna mi godo la gravidanza senza ulteriori stress o problemi. Dopo la nascita di mio figlio usufruisco di tutta l’astensione facoltativa; all’ età di 9 mesi lo iscrivo al nido e sono pronta a rientrare al lavoro.

Richiamata dalla cassa integrazione, per non lavorare

Il primo giorno mi fanno trovare il macchinario smontato che devo rimontarmi da sola (e non sono un meccanico), un collega a cui hanno chiesto di rendermi la vita impossibile, ma che poi per compassione mi aiuterà non visto dai capi, e in più subisco le battute offensive del titolare su come la gravidanza mi abbia lasciata pesante. Chiedo un part time di 20 ore settimanali; me ne concedono uno di 9 ore alla settimana, troppo poche perché le possa accettare: chi pagherebbe la benzina?

Sopporto unicamente per non dargliela vinta, finché un giorno il titolare annuncia la chiusura del mio reparto, dopo aver dislocato la produzione in Cina, e la messa in cassa integrazione di alcuni di noi: stavolta non sono l’unica e mi faccio assistere dal sindacato. Dopo alcuni mesi, in cui vengo invitata spesso a cercare un altro lavoro, vengo richiamata senza preavviso il sabato per il lunedì per tornare al lavoro, con un cambiamento di orario: mi aumentano le ore di pausa. Io, che avevo ritirato il bimbo dal nido, poiché ero in cassa integrazione da mesi, ho un malore.

Mi viene prescritto qualche giorno di riposo dal medico; ne approfitto per cercare un nido i cui orari coincidano con i miei, perchè il precedente può tenermi il bambino solo fino alle 17. Infine lo trovo, rientro; il primo giorno di lavoro, il titolare mi dice di sedermi in mezzo al capannone, poiché non ha più lavoro per me. Ma se mi ha richiamato lui dalla cassa integrazione!

Senza più diritti. Nemmeno quello alle ferie

Iniziano a farmi fare la sguattera ovunque, tolgo persino le ragnatele. Il sindacalista minaccia di denunciare l’azienda per demansionamento e mobbing; finalmente, in seguito alla minaccia, mi trovano un lavoro adatto, che eseguo in modo esemplare. Purtroppo, però, rimpiazzo in ufficio l’amante del titolare, di cui lui nel frattempo si è stancato; lei scarica su di me la sua aggressività di donna usata e ripudiata, maltrattandomi anche quando gli sbagli sono i suoi.

Alla fine, calma e tenace, riesco a tenerle testa e lei mi lascia stare. Ma ricevo continui attacchi: il peso dei pacchi viene aumentato alla massima soglia sollevabile dalle donne; mi vietano di usare strumenti che ho sempre saputo adoperare in maniera eccellente e che non ho mai danneggiato; quando svolgo un lavoro in coppia con un collega, a lui viene dato un contrassegno di controllo qualità da apporre mentre a me no. Ogni singolo giorno di ferie che maturo me lo negano “a causa della crisi”: non ho più nemmeno il diritto alle ferie e di fatto non ne ho più. Sono costretta a chiedere l’aspettativa non retribuita per badare a mio figlio quando il nido è chiuso.

Vittima di un Paese né civile, né democratico

Dopo due anni di queste vicende, senza nessun aiuto o quasi dal sindacato, nessun aiuto dall’avvocato, che avrebbe bisogno di maggiori prove per fare causa e chiedere i danni, e non sostenuta nemmeno dagli attuali CCNL che tolgono diritti invece di tutelare, dopo innumerevoli lettere a più di una Consigliera di Parità e ai vari siti anti-mobbing, mi dichiaro sconfitta.

Sto per dimettermi, perché mi hanno negato l’aspettativa per badare a mio figlio e il peggio è che non avrò neppure il sussidio di disoccupazione; poi mi chiedo: con un bimbo di tre anni chi mi assumerà? Grazie alle leggi sessiste che abbiamo in Italia e all’inesistente tutela delle donne e madri che lavorano, questo Paese non può dirsi nè civile nè democratico. Mi rimane solo una speranza: che queste storie vengano lette e dibattute in Parlamento, o magari poste all’attenzione del Capo dello Stato, così che le nostre figlie non vengano anch’esse umiliate e derise come donne, madri, lavoratrici.

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Pubblicato il Lavoro