🙂 VIENE RICATTATA E POI LICENZIATA
La mia esperienza è finita male. Alla fine a licenziarmi ce l’hanno fatta. A fine agosto. “Eh, la crisi…” “Eh, il terremoto…”
Gli imprenditori su queste cose ci marciano e se ti prendono di mira sei spacciata. Non c’è articolo 18 o tutela specifica che tenga. Alla fine il coltello dalla parte del manico ce l’hanno loro, soprattutto in questo periodo di recessione in cui il lavoro è poco e se lo perdi e hai famiglia è un macello. Un ricatto silente. Una tutela per gli imprenditori. Non scritta, ma ben più ampia di quei due articoli che se vuoi farli valere devi rischiare soldi, e poi chissà perchè chi ha la voce più grossa non sei tu.
Una proposta che non si può rifiutare
Sono stata assunta in azienda a marzo 2005. Avevo appena avuto un bimbo che avrebbe compiuto un anno a maggio e avevo deciso di cambiare lavoro, per crescere professionalmente e per avvicinarmi a casa (prima lavoravo a 40 km di distanza). Avevo accettato il posto nonostante mi avessero chiesto di rinunciare al periodo residuo di allattamento che mi sarebbe spettato. Una ragazza si era licenziata e avevano bisogno di un’impiegata a tempo pieno. L’azienda era a tre km da casa mia; mi avevano convinta dicendo che sarei arrivata comunque prima a casa. Anche lo stipendio era di poco più basso, ma avrei risparmiato benzina, no? Quindi era “una proposta che non si poteva rifiutare”.
Ok, vado. Dell’azienda mi parlano tutti bene. È bella. Moderna. Mi pare un altro mondo rispetto a dove lavoravo prima. Mi piace l’ambiente. I colleghi. Inzio a lavorare per il responsabile Italia. A volte troppo lunatico, ma con me sempre rispettoso. Mi stima. Dopotutto basta poco: una pacca sulla spalla, un “ben fatto” a premiare il tuo impegno.
Un po’ di affiancamento…
Passa circa un anno, arriviamo a giugno. La responsabile del personale mi convoca per farmi un’altra “proposta che non si può rifiutare”. Vado nel suo ufficio e lei si complimenta con me a profusione. Mi propone di affiancare la segretaria di direzione e di lavorare a suo fianco per il direttore generale.
Wow, che notizia. Allora sono proprio in gamba, dico a me stessa. Da un lato mi dispiace lasciare i miei colleghi, dall’altro mi stimola poter crescere e lavorare in direzione, in prima linea.
Chiedo due settimane di ferie a giugno, ma in occasione del colloquio con il direttore generale me ne viene rifiutata una, “perchè, sai, ora devi fare anche un po’ di affiancamento“. Non c’è problema. Figuratevi. Mi ribadiscono più volte che dovrò rispondere direttamente al direttore generale e non dipendere dalla sua assistente storica. Voglio che sia messo in chiaro, perchè sono corretta (io), e non voglio violare scale gerarchiche e organigrammi affissi ai muri dell’azienda.
… Ma a chi devo rispondere?
La storica assistente di direzione dice di non sapere del mio arrivo. Dice che ha piacere, così un po’ la sollevo. Deve sposarsi, andare in viaggio di nozze, per cui dovrò essere pronta a fare il suo lavoro durante le sue tre settimane di assenza. Dopo pochi giorni dal mio inizio in direzione (licenziata da una società del gruppo e assunta da una diversa), la mia collega fa preparare la targhetta fuori dall’ufficio. Il suo nome in grassetto, il mio, sotto, non in grassetto. Non dico nulla. Il direttore – mi dicono – se la prende con lei e fa cambiare immediatamente la targhetta.
Lei mi chiede se le mostro i compiti che mi vengono assegnati. Per un po’ ci confrontiamo… Perchè devo imparare. Un giorno, mi spiega che le hanno detto che ero stata assegnata in quell’ufficio per supportare lei e che a lei devo rispondere. Ma a me non hanno detto così.
Lavoro di più e meglio, ma lei ha sempre la meglio
Prima che arrivassi io, lei usciva alle 17:30 in punto. Durante il periodo in cui era in viaggio di nozze, e anche successivamente, io invece lavoravo dalle 8:00 alle 20:00. Certo, avevo tanto da fare e il lavoro mi piaceva: era vario, stimolante. Inoltre, con il direttore (una donna) mi trovavo bene: solare, aperta. Al contrario della segretaria “esperta”, più giovane anagraficamente di me ma seria, severa, austera e antipatica a tutti. I colleghi erano felici di avere a che fare con me e mi davano risposte ancor prima che a lei, perchè faceva la maestra cattiva con tutti; io, invece, insistevo e sollecitavo con fermezza solo se ce n’era bisogno.
Morale della storia: al suo rientro dal viaggio di nozze, le fanno presente che lavoro più tempo di lei e che il mio lavoro va bene. Che sono tutti contenti di avere a che fare con me. E così parte la sua vendetta. Inizia a gettarmi fango addosso. Un giorno abbiamo una litigata. Facciamo pace ma in realtà siamo incompatibili. Vengo richiamata nell’ufficio del personale. Questa volta mi viene detto che devo cercare di andare d’accordo con l’altra e che dobbiamo lavorare insieme.
Ho carta bianca, ma devo obbedire
Nell’ufficio commerciale dove lavoravo prima arriva un nuovo direttore. Persona particolare, certo, ma, considerato che non ne posso più di lavorare a fianco della ‘strega’ e mi mancano i miei vecchi colleghi, quando mi domanda di lavorare nell’ufficio commerciale per lui accetto subito. Insomma, un’altra “offerta che non si può rifiutare”. Di nuovo licenziata e assunta nella nuova azienda, che era la prima in cui ero stata assunta.
Tutto va bene, ma il direttore commerciale proviene da un grande gruppo internazionale e il suo compito è prendere decisioni. Mi confronto con il direttore generale, ma il mio capo mi dà carta bianca per le strategie minori e le modalità d’azione e procedura. Sbagliato! Questo non deve succedere in una società dove se dai ragione al direttore generale va tutto bene, altrimenti è meglio che te ne vada.
L’apporto di tutti dev’essere considerato un bene prezioso, a mio avviso, ma spesso non accade. Molte volte, la delega di poteri è solo teorica e tocca eseguire quel che dice un capo che magari usa una strategia sbagliata, però, poiché è il boss, comanda anche se sbaglia. Il direttore commerciale si stanca. E si dimette.
Lascio i problemi fuori dall’ufficio, ma…
Durante quel periodo mi stavo separando e attraversavo un momento difficile. Ero dimagrita di 10 kg, la pelle mi si desquamava. Il lavoro era tutto, a parte mio figlio. Ma il weekend, anzichè essere una pausa felice, rappresentava l’incubo di restare con una persona che non avevo più voglia di avere vicino. Il direttore commerciale va via a fine settembre, mentre ero proficuamente impegnata a collaborare per un meeting. Stavo cercando casa e attendendo la data dell’udienza di separazione.
Un giorno mi convoca la responsabile del personale. Dice che deve confrontarsi con me sul meeting e io immagino che voglia complimentarsi per il mio lavoro. Invece, sento un’incudine piombarmi sulla testa quando mi dice che il mio “atteggiamento è cupo”, che non devo “portare i miei problemi in azienda”, che fino a quel momento il direttore commerciale mi aveva “elegantemente protetto” (???) E che mi stava per il momento richiamando verbalmente, ma che, se le cose fossero continuate così, mi avrebbe richiamato per iscritto. Eppure non avevo mai fatto ciò di cui mi accusava: una volta entrata in ufficio, tenevo solo per me i problemi legati alla separazione.
Comunque, continuo il mio lavoro con il medesimo impegno; con l’unica differenza che, venuto meno il direttore commerciale, operava ad interim il direttore generale, attraverso la sua assistente. Vecchie conoscenze.
Ora che sono piu debole, il mobbing si fa più forte
Dopo 4 anni dalla mia prima assunzione, nei miei confronti qualcosa si è rotto: qualcuno mi tira addosso fango. E io immagino chi sia. La crisi comincia pian piano a farsi sentire e si comprende come sia necessario eliminare la debole zavorra e mantenere in azienda solo i migliori.
Mi offro di coprire il posto della centralinista nel primo mattino, per collaborare con il marketing alla redazione di comunicazioni aziendali. Infatti non ho mai avuto paura di mettermi in gioco, cosa che un tempo era apprezzata. La ‘strega’ mi metteva sotto pressione, affidandomi compiti quasi impossibili; faceva dipendere la loro correttezza da bordi in grassetto. Mi si facevano studiare tabelle per la valutazione di statistiche che non avevano senso, procedure che non sarebbero mai state utilizzate, e io come una moderna Penelope facevo e disfacevo, perchè, guarda caso, il modo in cui lavoravo non andava mai bene. Doveva esserci sempre la mano della segretaria di direzione, alla fine, e probabilmente anche il merito di parte del mio lavoro.
Poiché non avevo più un responsabile, se non il direttore generale, a sovraintendere al mio lavoro era proprio lei, incaricata in via ufficiale. Di solito, il responsabile filtra il tuo lavoro facendo da tramite con la direzione generale; prende anche le tue parti se serve. Ma nel mio caso il mio “ammortizzatore” era il mio carnefice e non c’era molto da fare. La cosa riguardava tutto l’ufficio commerciale, divenuto ‘orfano’ di un capo, ma ero io che alla fine ne facevo di più le spese. Era già iniziato da un bel po’ il mobbing feroce che mirava a distruggere psicologicamente una persona comunque timida, che viveva sola con un figlio e un piccolo assegno e non poteva permettersi di alzare la voce o controbattere, perché sarebbe stato peggio.
Per una cella errata, un richiamo scritto
A forza di periodi più o meno stressanti e accuse infondate si arriva alla fine dell’anno. Presento un modulo in cui per errore scrivo un importo in una cella anzichè in un’altra, ma la cosa non sarebbe importante. Si tratta di un modulo non ufficiale in Excel. La ‘strega’ me ne faceva compilare a bizzeffe e controllavo sempre tutto minuziosamente per evitare di essere colta in fallo. Mi sentivo guardata a vista e in ogni singolo istante della mia vita lavorativa pensavo alle mie azioni e intendevo quelle altrui volte a indurmi in errore, per poi cogliermi in fallo e farmi fuori. Tutto questo era origine di stress acuto.
Quella casella non era un errore di quelli che ti fanno perdere il posto, nè tantomeno richiamare. Sono quegli errori di cui ti accorgi tu sola. A meno che la tua responsabile riesca a convincere chi si trova più in alto, sa poco in materia e si fida di lei che è un errore capace di indurre la società a perdite economiche considerevoli. Un file di excel ufficioso, per uso interno e che non importava un fico secco.
Me ne deriva un richiamo scritto: vengo ripresa con l’accusa di star inducendo la società a sborsare una barca di soldi, quando in effetti a far fede erano solo le fatture a cui l’ufficio amministrativo si riferiva. Quel modulo, partorito dalla mente malata della ‘strega’, non era mai servito e da quando era stato creato aveva procurato lungaggini, ritardi e l’ira dei commerciali, già impegnati per conto loro e che ora avevano nuova burocrazia. Burocrazia con grassetti, bei colori e margini, perchè si sa che è questo che fa il successo di una azienda. Che la fa produrre e crescere.
Un lavoro impossibile, che produce dati inutili
Ad ogni modo, primo richiamo con obbligo di risposta entro i giorni stabiliti. Mi consulto con un legale: decido che l’unica cosa da fare è scrivere che ammetto il mio errore e che non lo commetterò più. Mi costa, ma mi costa anche mantenere il mio bimbo e pagare l’affitto. E loro questo lo sanno.
All’inizio accenno a tabelle statistiche di Excel che avevo elaborato. Ricche di formule. Avevo lavorato alacremente, cambiando spesso i dati su richiesta di chi voleva cogliermi in fallo. Si trattava di una raccolta dati impossibile: si mescolavano i dati delle filiali con quelli dei rivenditori. Avevo fatto presente che non era coerente, ma solo dopo aver lavorato come un somaro mi si confermavano le stesse obiezioni che avevo fatto e che, ora che venivano dalla ‘strega’, erano sicuramente corrette.
Il giorno della presentazione del modello commerciale, non si hanno i risultati attesi. Certo, le fonti erano spesso manuali e, se non venivano forniti i dati corretti, era faticoso ottenere i risultati attesi dai commerciali. Risultato: si lamentano. La strega si sfrega le mani. Può darmi nuovamente la colpa. Può farmela pagare. Vengo riconvocata. Accusata di non impegnarmi. Di fare sempre la stessa cosa (per forza: avevo la scadenza per quel lavoro inutile e dovevo lavorarci finchè non era perfetto). Nuovo richiamo.
Finalmente reagisco. Mi dicono: è mobbing
Nel richiamo inseriscono cose senza alcun senso. Come che avevo inviato un’offerta in italiano a un rivenditore greco (offerta mandata di proposito in italiano, perchè il rivenditore lo parla); che non ero disponibile (anche se non mi sono mai rifiutata di fare qualsiasi cosa) e simili. Questa volta, però, non ho intenzione di subire angherie e mi rivolgo ad un avvocato del lavoro, amico di un’amica. Decidiamo che l’avvocato stenda una risposta e che io l’adatti facendola ‘mia’ (sono laureata in Giurisprudenza e mi destreggio col gergo legale). Non volevo infatti dare alla mia risposta l’ufficialità di una lettera dell’avvocato, ma volevo presentare una difesa che, per una volta, cogliesse in fallo i miei accusatori.
Ironico come parlando con l’avvocato e spiegando la mia storia sia stato lui a parlare di “palese caso di mobbing“. Io allora ero troppo coinvolta per dare un nome alle azioni ingiuste e prevaricatrici che subivo.
Presento dunque la lettera da me firmata, con le mie difese stese punto per punto in modo ordinato e ineccepibile. Già dalle prime righe in cui cito l’obbligo di affissione delle sanzioni disciplinari in caso di richiamo la responsabile del personale si fa pallida e stupita. Mi chiede chi abbia scritto quella lettera; rispondo che sono stata io. Dopo molti rimaneggiamenti e variazioni, avevo comunque citato quelle norme: a differenza di quel che pensavano non ero una cretina. Risultato: il silenzio. Tutto si tranquillizza. Ho fatto la cosa giusta, forse: si sono resi conto di non aver a che fare con una deficiente e hanno preferito lasciar perdere.
Un gentile invito (a pranzo) a cercarmi un altro lavoro
Passa qualche mese e la responsabile del personale mi chiede di pranzare insieme. Cosa vorrà , mi domando. Pur preoccupata, penso che a pranzo un richiamo non può farmelo. E così, durante il pranzo, mi invita gentilmente a mandare in giro il mio curriculum, con la scusa che non solo l’ufficio, ma anche l’azienda in cui mi trovo, non sono adatti al mio modo di lavorare. Addirittura, mi indica degli studi di selezione con offerte di lavoro; mi chiede di segnarmeli. Non so se ciò sia lecito; in pausa pranzo, penso proprio di no.
Mi metto a cercare, ma, a parte la crisi, vorrei tener duro. Ho desiderio di mettere in cantiere un bimbo: alla peggio li saluto dopo la maternità . Non voglio accettare il primo lavoro che capita solo per scappare da lì. Con i miei colleghi oltretutto sto bene.
Il commerciale in cassa integrazione…
Il tempo passa senza altre azioni repressive. In direzione arriva un’altra ragazza che affianca la ‘strega’. In una riunione, ci spiegano che stanno riorganizzando con le filiali e che il nostro lavoro aumenterà tanto che la ‘strega’ dovrà aiutarci. Addirittura. Ribadiscono l’impegno che ci aspetta. Nel frattempo, una mia collega entra in maternità ; al suo posto viene assunta una stagista. A tre giorni dalla riunione, se ne indice un’altra per annunciare che la crisi li ha costretti ad aprire la cassa integrazione.
La società commerciale ha meno di 15 dipendenti, dunque è prevista come ammortizzatore la cassa integrazione in deroga. Uno strumento di tutela certamente meno ‘protettivo’ di quello che spetta alle aziende metalmeccaniche ordinarie. Ci dicono che di lì a poco dobbiamo iniziare rotazioni in ufficio, prima per esaurire le ferie, poi per la cassa integrazione, che ci sarebbe toccata alcuni giorni a settimana. A rotazione. Quattro giorni prima ci hanno detto che avremmo avuto bisogno di supporto; oggi invece che di lavoro per noi non ce n’è.
Badate bene che il caso di un’azienda che apre la cassa integrazione per il settore commerciale non è frequente. Di solito, in ipotesi di crisi, è proprio il commerciale che si dà da fare per acquisire e mantenere clienti e contratti. Tutti coloro a cui dicevo che l’azienda avrebbe aperto la cassa integrazione per il settore commerciale sgranavano gli occhi.
… Ma in cassa integrazione ci vado solo io!
Indovinate chi, in ufficio, avrebbe dovuto esaurire le ferie prima della cassa? Proprio io. Di fatto le ferie venivano usufruite anche da un mio collega, ma lui – e lo sapevano bene – ne aveva molte più di me e dipendeva dal responsabile per l’Italia, che richiedeva la sua presenza all’ufficio personale e gliele faceva risparmiare. Io, invece, come alcuni promoter scomodi, lavoravo due giorni alla settimana, non raggiungendo dunque i giorni mensili utili per maturare ferie, tredicesima, TFR. In più, i principi in materia della società commerciale non vincolavano l’azienda ad anticipare lo stipendio INPS. La ‘strega’ (che avrebbe dovuto supportare l’ufficio) a gennaio se ne va. Ma non ho neanche voglia di esultare, per come sono messa.
Una mia collega era andata in maternità a novembre; immagino che a novembre avevano probabilmente già richiesto la cassa integrazione e preso una stagista. Sarebbe stato più semplice coprire il suo posto con una risorsa interna, me, poiché il lavoro era diminuito. Ma avevano colto la palla al balzo per silurarmi. La situazione era critica, ma avevo ancora un contratto a tempo indeterminato. La rotazione per la cassa in segreteria, alla fine, aveva riguardato solo me. Nessun collega aveva esaurito ferie e iniziato la cassa. In un certo senso mi sentivo importante: mi rendevo conto che tutte le loro strategie e macchinazioni erano state partorite per danneggiare solo me… Amara consolazione.
Il terremoto. Anche nella mia vita
E poi arriva il terremoto. La situazione richiede la chiusura per qualche giorno e l’apertura di una cassa apposita. Molte persone vengono fatte rientrare alla spicciolata, poichè i capannoni non sono tutti agibili e necessitano di messa in sicurezza. Quale migliore occasione per trasformare la cassa a 24 ore in cassa a 40 ore? E per lasciar decorrere i tempi massimi e procedere al licenziamento?
E così, a fine agosto del 2012, mi viene consegnata una lettera in cui, per motivi di crisi e riferimenti normativi che sicuramente tutelano più gli imprenditori che i lavoratori, sono stata licenziata: la crisi li aveva obbligati a fare dei tagli e non potevano assegnarmi a nuove mansioni.
Perchè hanno scelto me, almeno ufficialmente? Perchè avevo meno esperienza in ufficio… (peccato che ben due miei colleghi siano arrivati dopo di me!). Le motivazioni ufficiose le potete immaginare.
Tutte le frasi di commiato, complimentose e sdolcinate, di una persona falsa e per lo più priva di memoria, caratteristica indispensabile quando devi dire alle persone cose coerenti nell’arco del tempo. Sapete quali sono state le sue ultime parole? “Devo farti i complimenti, perchè sei una madre separata e qui dentro nessuno se n’è mai accorto… Non hai mai portato qui i tuoi problemi e di questo devo dartene davvero atto”.