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Una lenta discesa all’inferno

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MARCO ADDIS 🙂 , TELESELLER, ASSUNTO E DEMANSIONATO

Un inizio promettente

Iniziai a lavorare per … Srl nel giugno del 2005. Provenivo da un’esperienza annuale in un altro noto call center di Milano, il che mi permise di poter essere assunto sulla parola, dopo un  breve colloquio dove mi si offrì uno stipendio fisso accompagnato da provvigioni di sicuro interesse. Assunto come Teleseller, quasi subito dimostrai le mie doti di abile venditore, confermando al nuovo titolare ciò che alcuni conoscenti gli avevano fatto presente sul mio conto.

Nel giro di qualche mese, io e altri colleghi, arrivati con me dalla stessa azienda, moltiplicammo le vendite, incrementando così il fatturato aziendale. A dicembre 2005, il nuovo titolare propose un progetto interessante ai primi 3 venditori dell’azienda. Tra questi c’ero io.

Tanti sacrifici per un obiettivo: l’assunzione

Il progetto aveva la durata di 7 mesi, durante i quali avremo dovuto avere come unico obiettivo l’aumento delle vendite e la crescita dell’azienda. Noi tre, da quel momento, saremmo stati non solo membri del gruppo dirigenziale, ma veri manager, responsabili ciascuno di una propria area. A me fu affidata l’intera area delle vendite interne e del call center. Il nostro unico e vero obiettivo era comunque l’assunzione a tempo indeterminato, con la possibilità di guadagnare direttamente dai pezzi venduti dalle varie strutture.

I mesi passavano e le vendite aumentavano sempre più, quasi raddoppiando il fatturato mese per mese. Dopo sette lunghi mesi di sacrifici, orari infernali e interminabili serate nel piccolo ufficio, arrivammo alla tanto sospirata assunzione. Il 21 settembre ricevetti la lettera d’impegno assunzione con la mansione di “Supporto Organizzativo Reparto Vendite Terzo Livello”, per 1446,88 € suddivisi in 14 mensilità. Il 1 ottobre 2006 fui assunto.

Appena assunto, già mi tagliano lo stipendio

Poco prima, però, il nostro titolare era arrivato a un punto di rottura col partner principale e tutto era cambiato. La struttura aziendale non aveva più bisogno del call center, ma puntava sulla rete commerciale esterna. L’azienda si trasferì; nello stabile vicino, dieci volte più grande del primo, e lì iniziarono i primi problemi.

Improvvisamente si mise in discussione tutto il mio operato. Da quel momento, il mio stipendio subì un drastico taglio: mi trovai solo con il fisso promesso e non più con la parte variabile costituita da provvigioni. Iniziò una sempre più pesante pressione psicologica, fatta di piccoli ma quotidiani rimproveri su cose apparentemente di poca importanza, con l’unico effetto di abbattermi irrimediabilmente portandomi ad una crescente crisi emotiva.

Chiedo il giusto, perdo le mie mansioni

Il mio ruolo reale divenne Assistente alle vendite e Trainer, mi occupavo cioè della formazione sul campo. Dopo un mese circa, anche se svolgevo quel ruolo nel migliore dei modi (ottenendo ottimi risultati di vendite dagli impiegati formati da me, ma soprattutto personali), dopo la mia richiesta della parte di stipendio mancante mi vennero tolte quelle mansioni. La motivazione ufficiale fu che il mio ruolo rischiava di compromettere il rapporto tra i venditori e il responsabile (il mio collega). Motivazioni che rifiutai categoricamente e non riuscii a capire.

In quel momento ero l’unica figura aziendale che conosceva alla perfezione i molteplici piani tariffari del nuovo partner commerciale; per questo, pian piano ero diventato il punto di riferimento delle risorse commerciali, cogliendo per primo le loro difficoltà, alleviando i primi malumori nei confronti di un’azienda sempre più esigente, guadagnandomi quella leadership e rispetto più del loro capo. Mi si richiese personalmente di fare un passo indietro, e io lo feci, promettendo di stare più attento a non ledere il ruolo dirigenziale del mio collega, per la mia naturale predisposizione ad essere amichevolmente disponibile con il prossimo.

Vengo “processato”, ma non posso “difendermi”

Nel dicembre del 2007, un incontro tra me e i miei “due” responsabili sfociò in una messa in accusa della mia persona. Come in un severo tribunale d’altri tempi, mi si lamentava una mancanza di proposte. Provavo a ribattere, ma non mi si permetteva di replicare, poiché ogni mia parola veniva sarcasticamente interrotta da obiezioni varie che portavano il discorso su altri binari e li si ricominciava. Addirittura fu citata la mia cadenza sarda, le cui inflessioni impedivano, a detta loro, la facile comprensione dei miei ragionamenti. Pensai: “siamo alla follia”. Mai per nessun cliente questa caratteristica dialettale era stata un problema.

Insieme alla mia incredulità, lentamente prendeva corpo un’insicurezza verbale ed emotiva che mi portava a rendere più evidente e palpabile la mia rabbia. Dopo ore di duri contrasti, la richiesta più stravagante mi venne fatta con questa premessa: “Poiché il tuo stipendio pesa all’azienda 35 mila euro annui, ti chiedo di restituirmeli in fatturato, dando il buon esempio ai venditori cioè vendendo più di loro”. “Bella idea”, dissi, “ma riprendiamo in considerazione le provvigioni promesse, e soprattutto la possibilità di utilizzare, come tutti gli agenti, gli appuntamenti creati dal telemarketing”.

Quando i numeri diventano un’opinione

L’ufficializzazione di quelle richieste fu la presentazione del mio forecast mensile. Numeri evidentemente buttati giù senza criterio, quantità di pezzi giornalieri talmente folli che i venditori di allora tutti insieme non raggiungevano settimanalmente. Da quel momento in poi iniziai a riconsiderare e mettere in dubbio, oltre che la stabilità mentale del mio capo, anche la mia certezza lavorativa; quei discorsi altro non furono che la giustificazione da parte del titolare per non dovermi retribuire con quanto inizialmente promesso.

In realtà di quegli appuntamenti avevo usufruito per qualche settimana e la mia ingenuità – e forse la voglia, per l’ennesima volta, di dimostrare le mie capacità – non mi aveva permesso di prendere in considerazione quel segnale negativo.

Trattato come un pacco, poi demansionato

In quelle settimane fui letteralmente spedito da una parte all’altra dell’hinterland milanese senza mezzo di trasporto, senza rimborsi e senza alcun supporto. Arrivai ad andare, oltre che nelle sperdute periferie milanesi, poco servite da mezzi pubblici, addirittura più volte nelle città vicine, in treno. Rientravo in ufficio a notte quasi fatta. Per la mia vita sociale e privata non avevo più tempo. Iniziai a lamentarmi, con l’unico effetto di un ennesimo demansionamento del mio lavoro.

Rientrato dalle ferie natalizie (ferie non permesse in toto come da me richieste), iniziai la mia nuova e sempre improvvisa mansione. I nuovi commerciali non mi si presentavano più. Senza mai avermelo ufficializzato, di fatto non facevo più parte del direttivo aziendale, senza alcuna spiegazione.

Un “gruppo” di lavoro con un solo membro: io

Il mio nuovo incarico consisteva nel contattare clienti al telefono, come agli albori della mia esperienza lavorativa milanese. Un evidente e ormai ufficializzato demansionamento, tanto umiliante da compromettere ancora di più la mia salute. Quella mente ormai lucidamente perfida del mio titolare aveva ideato una nuova trappola.

Aveva creato un nuovo progetto: un gruppo di lavoro composto da tutti i componenti effettivi dell’azienda: il back office tutto, lui stesso, il responsabile commerciale ed io, per un totale di 6 elementi. Ovviamente, cosa che mi aspettavo, mi resi conto subito che quel numeroso gruppo di lavoro in realtà non esisteva: ero l’unico a dedicare l’intera giornata a quel progetto.

Il primo mese, il 90% delle vendite furono le mie. Lo feci notare in varie occasioni, per cui nei briefing di gruppo gli unici rimproveri e insoddisfazioni sulle vendite le subivo personalmente, insieme al solito triste promemoria dei miei costi annuali.

Dagli incubi a una realtà da incubo

Tutto ciò, oltre a non farmi dormire la notte, iniziava a crearmi qualche difficoltà nel relazionarmi con il mio titolare in primis, ma anche con il resto dei colleghi. Di notte, quando riuscivo a prendere sonno, mi vedevo da solo al centro di una grande stanza circondata da pareti di vetro; i colleghi che vedevo passare al di là mi guardavano: alcuni ridevano di me; altri, quelli a me più vicini, mi osservavano con evidente compassione. Quando mi svegliavo di soprassalto, era già ora di prepararmi per andare a lavoro. La realtà era molto più triste di quel sogno ricorrente.

La mia postazione era una scarna scrivania con un computer, il cui schermo era un televisore vero e proprio: l’unico cimelio nell’ufficio. Stavo dietro una libreria, chiuso in un angolo davanti all’ingresso; l’unico vicino alla porta e quindi obbligato ad aprirla tutte le volte che suonavano il campanello. Anche questa mansione, però, inaspettata era arrivata al suo termine.

Trovo il coraggio di protestare, ma…

Una mattina, appena rientrato da una pausa-sigaretta, vidi nella mia mail aziendale un sarcastico messaggio da parte del titolare, inviato a tutto l’ufficio, in cui rendeva tutti partecipi della prematura morte del mio gruppo di lavoro, motivandolo con un negativo primato di vendite, e altrettanto sarcasticamente invitando lo staff a prendere coscienza del fallimento totale dell’iniziativa.

In quel momento, per la prima volta, non ci vidi più dalla rabbia e dopo qualche minuto di esitazione mi diressi nel suo ufficio. Chiesi spiegazioni, ma lui, con una sottile accenno di sorriso, mi rispose che la mail le spiegazioni le dava tutte, che era meravigliato dalla mia reazione e che non vedeva motivo alcuno per prendermela personalmente.

Cercai di spiegare quanto quella “constatazione di morte” del progetto mi avesse profondamente turbato, ricordando che fin dall’inizio, come tutti sapevano, e come sempre recriminavo, quei numeri erano i miei, che per questo motivo avrei preferito essere chiamato in ufficio e magari discutere insieme sui termini della cessazione di quel progetto, facendo presente che anche io ero d’accordo, visto il poco contributo da parte dello staff alla produzione.

Lui si alzò in piedi, il volto violaceo, e iniziò a sbraitarmi addosso tutta la sua incredulità per la mia presa di posizione. Stetti male, mi venne un attacco d’asma; accortosi dell’affanno, infierì maggiormente. Disse che era preoccupato per la mia reazione, non per la mia salute ma per la mia agitazione e quindi, secondo lui, la mia “reazione istintivamente violenta nei suoi confronti” (successivamente me lo rinfacciò più volte davanti ai miei colleghi).

Mi venne un attacco di pianto improvviso e incontrollabile, in piedi davanti alla sua scrivania: mi sentivo fragile e impotente. Lui si sedette e chinò la testa verso le sue scartoffie, invitandomi ad uscire fuori e prendere un po’ d’aria.

Dimissioni “volontarie” che non vorrei proprio dare

Il 3 aprile del 2008, dopo avermi cambiato mansione più volte e sempre improvvisamente, mi vennero chieste “volontarie” dimissioni. Le motivazioni erano varie e confuse, in primis “per cessare le continue pressioni psicologiche nei miei confronti”, ammettendo di aver esagerato nel pretendere mensilmente obiettivi più alti rispetto ai venditori. Altri motivi erano una sorta di riordino aziendale (in quel momento, a detta del titolare, uno stipendio a tempo indeterminato era un peso insostenibile per le casse dell’azienda) e la necessità di un venditore esperto, vista la difficoltà nel reperirne dei nuovi.

In quel momento mi crollò il mondo addosso. Tutti i miei progetti si spensero in un incontro di pochi minuti col Capo, in cui, dopo la richiesta, mi fu consegnato un normale mandato di agenzia da firmare seduta stante: un contratto di sole provvigioni senza tutte le tutele e la sicurezza economica che fino a quel momento pensavo di avere.

La mia assunzione era arrivata dopo un anno di sacrifici, con una media di lavoro giornaliero di 12/13 ore senza alcun compenso aggiuntivo, una conquista alla quale in nessun modo avrei voluto rinunciare. Pretesi, in lacrime, di poterci pensare per qualche giorno, almeno per leggere il nuovo contratto e solo dopo molta insistenza mi fu accordato.

Il collasso… Non solo metaforicamente

Nonostante quell’assurda situazione, continuai a lavorare, cercando invano di non pensarci almeno in ufficio. Ciò comportò un carico di stress e ansia, seguito da atteggiamenti emotivi che riuscii a gestire con varie difficoltà nei rapporti interpersonali e lavorativi e che mi impedirono per settimane di dormire; inoltre, cosa che mi preoccupò ancor di più, una nausea continua mi bloccò ogni stimolo a mangiare, se non per rimettere dopo qualche minuto. Da quel momento subentrarono una serie di difficoltà fisiche e psicologiche, che improvvisamente sfociarono in un collasso.

Quel giorno, mentre mi dirigevo da un cliente, persi i sensi per strada. Dopo aver passato l’intera giornata in ospedale e aver eseguito tutti gli esami di routine mi dimisero con una prognosi di severo riposo, confermata anche dal mio medico con una settimana di malattia. Avvisato il mio capo dopo essere uscito dall’ospedale, questi esordi con la richiesta di vederci in ufficio per concludere il nostro discorso interrotto (le dimissioni). Mi rifiutai categoricamente e senza dare molte spiegazioni chiusi il telefono.

In ufficio, senza scrivania nè pc

Rientrato in ufficio, la settimana seguente fui accolto dal mio capo e dal mio responsabile molto freddamente, come se quella settimana fosse stata un furto da parte mia nei confronti delle casse aziendali e non un diritto sancito dal mio contratto. Non mi permisero di utilizzare né la mia scrivania né il mio computer. Unica priorità in prima mattina era definire il mio nuovo contratto “non contratto”. Quel giorno ci fu formazione aziendale per i commerciali, ma a me non fu permesso assistervi se non dopo aver parlato col capo.

Ero tremendamente impaurito, pensavo quello fosse il mio ultimo giorno di lavoro. Comunque, mi fu fatta la stessa richiesta di dimissioni volontarie e anche quella volta la risposta da parte mia fu un no. Avevo ancora bisogno di tempo. Il capo allora mi propose di andare a casa e pensarci tutto il giorno per poi l’indomani dare una risposta definitiva. Uscii dall’ufficio e mi diressi dritto alla sede del sindacato. Avevo bisogno di informazioni e forse di altro. Lì mi diedero il consiglio di fare causa e andare in malattia, anche perché, secondo la psicologa, avevo bisogno di tranquillità e anche di qualche seduta.

Per i miei clienti, sono “all’estero”…

Presi la decisione di mettermi in malattia. Il mio medico, dopo aver letto l’impegnativa della psicologa, mi diede 20 giorni di riposo. La stessa sera avvisai il capo, che non mancò di pretendere per telefono la risposta alla sua insistente richiesta di dimissioni, che ancora rifiutai. Mi chiese indietro il cellulare aziendale pretendendo che andassi in ufficio a consegnarlo. La mattina seguente il cellulare era già bloccato, insieme alla mia mail aziendale, interrompendo non solo i miei contatti con l’ufficio ma anche quelli con i miei clienti diretti, cui fu detto successivamente che sarei stato all’estero per un mese e che le mie trattative più importanti le avrebbe seguite il mio responsabile.

Venti giorni a casa, una solitudine che mi mangiava dentro, dimagrii 5 kg. Rientrato al lavoro. Anche questa volta stessa scena, richiesta di dimissioni questa volta in modo molto violento, al che risposi in maniera decisa e irritata che mi avrebbe dovuto licenziare e che le dimissioni non le avrei mai date.

Il potere (coniugale) torna a colpire

Il mio capo uscì dall’ufficio sbattendo la porta ma tornò dopo qualche minuto con la moglie, sua socia, che davanti ad un lui, in silenzio e a testa bassa, mi diede l’ennesimo nuovo incarico ed il nuovo orario di lavoro. Passai un mese da incubo in amministrazione, rispondendo al telefono e aprendo la porta sotto la custodia della mia nuova responsabile, che ogni giorno, oltre a darmi direttive contraddittorie, mi rimproverava ogni istante, lamentando di non avere ancora terminato la mansione datami un attimo prima. La mattina iniziava con l’ispezione della mia scrivania e dei miei appunti personali, lasciando in soqquadro la scrivania senza darmi il tempo di mettere in ordine, poiché aveva già pronta la nuova mansione del giorno.

Ogni giorno mancavano documenti dalla mia postazione, che puntualmente lei mi richiedeva e puntualmente non trovavo, e che emergevano solo dopo aver messo sottosopra tutti i fascicoli dei contratti. Ciò che più mi pesava non erano tanto le continue umiliazioni davanti ai miei ex colleghi, alcuni formati da me, ma quel nuovo orario di lavoro. Ero l’unico per tutto il mese a iniziare il lavoro alle 8:30 e a staccare alle 12:30, per poi riprendere alle 15 e smontare alle 19. Una giornata intera al lavoro, considerando il viaggio per mangiare a casa. Tutto questo e anche altro fino al giugno 2008.

Di nuovo al call center: ritorno alle origini

Venni richiamato in ufficio per l’ennesima e umiliante mansione. Call center. L’inizio della mia carriera come operatore telefonico ed ora la fine nella stessa mansione? A fianco a quegli stessi operatori che avevo diretto e formato un anno prima. Inizialmente, in modo molto soft, mi fu richiesto di supportare la responsabile del call center nella formazione e vendite.

Esposi da subito i miei dubbi sulla fattibilità del progetto, poiché mi si chiedeva di creare una forza vendita all’interno del call center dove fino a quel momento non vi era traccia di venditori, e sapevo che sarebbe stato impossibile trovarne di nuovi a un mese dalla chiusura natalizia. A quel punto i toni cambiarono, mi fu imposta la nuova mansione per esigenze aziendali e fui costretto ad accettare l’incarico.

Ovviamente, già dal giorno dopo, come temevo, ci fu la richiesta di raggiungere obbiettivi impossibili. I primi 10 giorni furono scanditi da incontri giornalieri col capo, che mi lamentava il mancato raggiungimento di quegli assurdi obiettivi. Questo mi portò a una lieve ricaduta fisica, che si tradusse con una settimana di malattia. Rientrato al lavoro, scoprii che il call center era stato ridimensionato, la responsabile licenziata e i venditori riportati alla loro iniziale mansione di telemarketing.

Alla mia richiesta di spiegazioni, molto freddamente mi venne risposto che la mia mansione non sarebbe cambiata e che fino alla chiusura di agosto avrei continuato a vendere (da solo). Nessun’altra spiegazione. Il giovedì di quella stessa settimana il call center chiuse. Io continuai a vendere da solo all’interno della grande sala call center, 200 mq di sala vuota tutta per me.

La malattia: un diritto negato solo a me

Rientrati dalle vacanze, la nuova mansione era pronta e studiata tutta per me. Questa volta l’esigenza aziendale richiedeva un responsabile di sala. Proposta che accettai, perché finalmente quella era la mia vera mansione, anche se sapevo che prima o poi si sarebbe ripetuto quello che era successo i mesi precenti. Iniziammo a ottobre ottenendo già ottimi risultati.

A novembre i numeri furono ancora più soddisfacenti, con 25 centralini venduti su appuntamenti creati dal call center. A dicembre consolidammo i risultati con 15 centralini e 110 adsl vendute da call center, ottenendo addirittura i complimenti da parte del nostro marchio. Gennaio non fu da meno, con altri 17 centralini e febbraio con circa 1 ventina; gli appuntamenti totali al giorno furono sempre sopra la media di 20. Tutto bene, insomma, fino a quando, per una forte influenza, rimasi a letto per 5 gg, di cui solo tre lavorativi.

Rientrato al lavoro non mi aspettavo certo un tappeto rosso, ma almeno qualche interessamento sulla mia salute da parte dell’azienda. Mi chiamarono in ufficio per spiegazioni sulle mie assenze; risposi che le spiegazioni le dava tutte il certificato medico, che avevo consegnato a mano perché impossibilitato dalla febbre a 40° e dalle placche in gola a inviarlo via fax. La risposta del titolare fu del tutto inaspettata.

Ricevetti delle minacce verbali da parte della titolare e legale rappresentante dell’azienda. Non potevo permettermi, a suo dire, di avvalermi come da diritto delle malattie, in quanto nell’anno precedente le avevo utilizzate più di tutti gli altri colleghi! Aggiunse che non potevo permettermi di fare ciò che volevo, dimenticando che quelle stesse assenze erano dovute alle loro pressioni e minacce, continuando con altre minacce, come quella di adottare provvedimenti “antipatici nei miei confronti” se non avessi smesso di fare assenze per malattia.

L’orario di lavoro è “flessibile”: cambia in continuazione!

La mattina seguente mi fecero pervenire in forma scritta il mio nuovo orario di lavoro: 9:30-12:30 e 14:00-18:30, anticipato dunque di mezz’ora la mattina e posticipato sempre di mezz’ora la sera, con una pausa assurda e antipatica di 1 ora e 1/2 nel bel mezzo. Mi fu motivata la nuova esigenza aziendale in forma scritta, mentre in forma verbale e con toni poco eleganti mi si rimproverò di uscire troppo puntuale la sera dal lavoro.

Come se non bastasse, il giorno successivo mi consegnarono una comunicazione dove si faceva presente che il mio contratto era stato variato, da commercio a telecomunicazioni. In tutto questo, nonostante la mia mansione da settembre fosse sempre stata quella del responsabile e coordinatore del call center (nello specifico formazione degli operatori e colloqui di assunzione, gestione e controllo delle performance di sala, creazione degli stessi script commerciali e sperimentazioni delle strategie, gestione dell’agenda dei commerciali esterni, recall di conferme e verifiche degli appuntamenti fissati, referente commerciale per le esigenze dei clienti, assistenza post-vendita e venditore) e avessi ottenuto in tutte le mansioni una produzione eccellente, nella nuova formula contrattuale la mia mansione divenne assistenza clienti di 4° livello: veniva meno la mia originale mansione di supporto organizzativo del reparto vendite e la 14esima fino a quel momento percepita.

Per questi motivi e per il ritardo con cui avvenne la comunicazione, inoltre per la totale mancanza di un anticipato confronto sui termini della variazione contrattuale, mi rifiutai di firmare l’accettazione. Non sapevo se avrei continuato a percepire lo stesso stipendio, sia pure suddiviso in 13 mensilità.

Una busta paga arbitrariamente decurtata

A marzo presi una giornata libera per recarmi dal sindacato e ottenere spiegazioni sulle anomalie nella mia busta paga. Scoprii che negli ultimi 2-3 mesi mi erano state trattenute ferie mai godute, permessi mai richiesti, giorni non lavorati e ore non lavorate in realtà passate come sempre al lavoro. Soldi che mi sarebbero spettati.

Tre giorni dopo portai il mio call center a raggiungere performance record, anche se eravamo abituati ad ottimi risultati ormai dasei o sette mesi. Mi lasciai prendere dall’entusiasmo e inviai una mail al mio datore di lavoro, e in copia al responsabile commerciale: “Anche oggi il call center ha superato ogni record con ben 39 appuntamenti presi e tra questi 28 SIM”. La risposta del responsabile non si fece attendere, con un: “MITICO!” a caratteri maiuscoli, ma totale indifferenza da parte del capo sia via mail che di persona.

Il 1° aprile feci presente al mio responsabile la difficoltà a gestire soprattutto fisicamente i miei orari di lavoro, ribadendo che alle ultime ore della giornata arrivavo distrutto e a volte debilitato per la mole di lavoro. La risposta fu brevissima: “Lo immagino, ma dovresti parlarne con il capo”. Obiettai che lo stesso capo già lo sapeva e non era intenzionato a modificare l’orario. In aprile comunicai al responsabile che per Pasqua avrei dovuto richiedere le ferie per il martedì successivo, non avendo trovato aerei disponibili per il rientro dalle vacanze.

Uno scambio di e-mail, ma l’orario non cambia!

Lui si offrì di andare insieme dal capo dopo alcuni giorni. Ma poi fu troppo impegnato e non poté accompagnarmi a richiedere le ferie. Gli feci presente che sarei andato da solo, ma lui insistette per aspettare al giorno dopo. Quel giorno ero molto stanco, alle 16:00 ebbi un calo di pressione e mi dovetti sedere. Alle 16:20 inviai una mail pacata al mio capo nella speranza che potesse cambiarmi l’orario.

“Scusa P…, dopo l’ultima modifica ai miei orari del mese scorso, la mia giornata lavorativa è aumentata di due ore circa e non nego di risentirne fisicamente, specie nelle ultime ore della giornata. Ormai da tempo sono impossibilitato a uscire in orario per la pausa delle 12:30 ma, per motivi esclusivamente lavorativi, resto in ufficio per altri 15-20 minuti, non riuscendo ad usufruire in pieno della mia pausa. Ti posso chiedere di poter riprendere in considerazione per l’ennesima volta l’eventualità di modificare i miei orari di lavoro? Propongo, sempre se dovessi essere d’accordo: 9.15-12.45 e 13.30-18.00. L’orario attuale è 9.00- 12.30/ 14.00-18.30. Grazie, Marco.”

Il martedì ricevetti risposta alla mia mail: “Marco, spiacente ma devo confermarti l’attuale orario di lavoro. Preciso bene sin da ora che in azienda non ti è mai stata fatta richiesta di prolungare la tua presenza presso i locali della stessa, anzi, proprio per evitare di risentirne fisicamente, gradirei che ti attenessi scrupolosamente agli orari concordati, senza mai prolungare il tuo orario di lavoro se non preventivamente concordandolo con me. Cordialità.”
Peccato che il mio “risentirne fisicamente” non era riferito ai 15/20 minuti in meno di pausa, ma all’aumento di 2 ore della giornata lavorativa…

Le ferie (negate) trascorse in ospedale

Il giovedì successivo, alle 11:30, ricordai al responsabile l’appuntamento dal capo, ma lui rinviò ulteriormente alla pausa pranzo. Alle 12:30 venne da me per informarmi di aver incontrato il capo, di avergli chiesto le sue ferie e di avere accennato anche alle mie, invitandomi ad andare subito nel suo ufficio. Non c’era. Alle 17:30 circa mi recai di nuovo in ufficio dal capo, chiedendo se il responsabile l’avesse informato della mia richiesta e motivandola.

Apriti cielo!!! Intanto, a suo dire, nessuno l’aveva informato, poi le ferie “in un’azienda normale si stabiliscono di comune accordo con l’azienda e anticipatamente, ti pare possibile che il giovedì di Pasqua alle 17:30 tu mi chieda le ferie per il martedì? Come ti permetti di pensare una cosa simile? Non credi che sarebbe più opportuno richiedere il venerdì, visto che il martedì è una giornata lavorativa importante? Come puoi abbandonare il call center in un giorno del genere?”

Iniziai a tentennare non aspettandomi una reazione simile, ma cercando di restare calmo feci presente che avevo informato da tempo il mio responsabile ma questi aveva rinviato giorno dopo giorno la comunicazione alla direzione; inoltre, ero stato obbligato ad acquistare i biglietti in anticipo poiché non c’era disponibilità di voli; che in quanto al martedì dal punto di vista lavorativo non era un giorno importante. Chiesi il perché della reazione violenta e di tanto accanimento nei miei confronti, visti gli ottimi risultati ottenuti dal mio call center, e come mai dopo ogni assenza per malattia, diritto sacrosanto, erano seguite sempre le odiose minacce e il cambio dell’orario di lavoro.

A tutto che mi rispose, sempre più alterato, che non erano argomenti in questione in quel momento, aggiungendo che non dovevo permettermi di comprare i biglietti senza consultarlo, e chiudendo il discorso, senza farmi ulteriormente replicare. Li non ci vidi più: dopo le sue performance arroganti e dittatoriali, domandai se mi stesse chiedendo di rinunciare alle vacanze in Sardegna dai miei parenti. Lui annuì e dopo un silenzio di qualche secondo mi invitò a uscire dal suo ufficio, rimandando l’ultima decisione a fine serata e lasciandomi volutamente appeso a un filo, nella più totale disperazione.

Ero agitatissimo e alle 18:00, mentre continuavo inutilmente a lavorare, crollai per terra senza sensi; dopo qualche minuto raggiunsi con difficoltà le colleghe nell’ufficio a fianco al call center, alla reception chiesi aiuto e crollai a terra svenuto. L’ambulanza mi portò in ospedale. La stanchezza psicofisica di quel momento e un’accertata ancor più grave gastrite mi costrinse a passare nel riposo più assoluto le vacanze pasquali, più altri giorni lavorativi in malattia.

Conclusione prevista: vengo licenziato

Una settimana dopo Pasqua, alle ore 8:45, entrato in ufficio trovai ad aspettarmi il mio datore di lavoro, il quale, senza nemmeno salutarmi, mi invitò a recarmi nella sala riunioni ancora con addosso il giubbotto. Dopo avermi sarcasticamente fatto presente che questa ennesima malattia mi sarebbe costata cara, ma senza darmi possibilità di ribattere, mi consegnò la busta paga del mese di marzo ed una raccomandata a.r. Anticipata v.b.m., in cui c’era scritto:

“Egregio sig. Addis, nel contesto di un generale piano di ristrutturazione, la Direzione aziendale ha deciso di sopprimere in via definitiva il ruolo di supporto alla clientela pre- e post-vendita da lei attualmente ricoperto. La Direzione ha naturalmente valutato la possibilità di utilizzare la professionalità da lei acquisita adibendola ad altre mansioni equivalenti ma, purtroppo, all’interno dell’organigramma aziendale non sono state individuate altre posizioni di lavoro nelle quali lei possa essere utilmente impiegato. Per quanto procede, sia pure con rammarico, ci vediamo costretti a privarci della sua collaborazione con effetto immediato. A far tempo dalla data odierna, pertanto, il suo rapporto di lavoro deve intendersi risolto a tutti gli effetti di legge e di contratto, con esonero dal preavviso e sostituzione dell’indennità relativa. Il pagamento delle competenze di fine rapporto avverrà con le seguenti modalità…
Distinti saluti, La Direzione.

Disegno persecutorio riuscito.

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Pubblicato il Lavoro