DOROTHY 🙂 LAVORA IN UNA ONLUS, CHE FA DEL BENE SOLO A SE STESSA
Questa coraggiosa testimonianza non vuole generalizzare i problemi di cui parla, ma si riferisce a un singolo caso. Non si intende, pertanto, in alcun modo dare un giudizio negativo sull’attività delle organizzazioni umanitarie.
Tutto, tranne la mission
Chi non sa mi dice: beata te, cosa può mancarti con tutti i soldi che ti danno!
Non è mia intenzione fare nomi. Vorrei solo dire che gli ambienti che gravitano intorno alle cosidette “organizzazioni internazionali” sono spesso, indipendentemente dai ‘signori stipendi’ percepiti, posti corrotti, degradati dal punto di vista umano, dove si fa proprio di tutto, tranne una cosa sola, la più importante, che dovrebbe teoricamente e praticamente essere la loro missione: aiutare i poveri. Mi chiedo come questi paladini dei Paesi del Terzo Mondo possano essere di aiuto ai poveri quando mancano di rispetto ai loro stessi dipendenti e quando, per soldi e prestigio, sarebbero pronti a vendersi persino la madre.
Ben pagata ma sfruttata, nonostante la mia fragilità
Ho bisogno di lavorare. In Italia il lavoro non c’è, ti devi tenere quello che hai. Loro te lo danno e ti danno tanti soldi, facendo leva sul fatto che subirai perché non vuoi ritrovarti disoccupata a trent’anni. La gente non capisce. Ti chiedono dove lavori e quando associano il posto allo stipendio ti invidiano, senza minimamente pensare che mi scambierei con loro anche domani, perché ho i soldi, sì, ma non la salute: fisica e mentale.
Mi mantengo da sola. Non posso perdere il mio posto e abbozzo. Soffro di disordini alimentari. Quelli bastardi, che apparentemente non si vedono, perché sono magra, ma non scheletrica. Nell’arco dei miei anni di servizio in questo posto, i miei problemi sono peggiorati. Nessuno lo vede sul corpo… A meno che non mi si tocchi il collo o si osservino i calli sulle dita.
Ricordo il film What women want., dove c’era una ragazza che in ufficio chiamavano “il sorcio con gli occhiali”. Stesse dinamiche. Stessa cattiveria. Non c’è orario. Non sei un essere umano. Devi produrre, perché qualcuno si fa bello del tuo lavoro. Perché qualcuno, tramite il tuo operato, si mette in mostra con chi conta, con chi fa fare strada. Fai questo – subito – fai quello, ancora non vedo x!, quando è pronto y?? Mille cose insieme. Credono che sia multitasking come il microprocessore.
In realtà sono l’essere più fragile della Terra e con loro non c’entro niente, perché per me conta quello che è fuori: contano i colori, i suoni, gli altri, l’amore che mi viene sempre puntualmente negato, sebbene lo ricerco disperatamente.
Comandare, per non avere responsabilità
Torno tardi a casa. Sola. Alle dieci vado a dormire e la mattina dopo tutto ricomincia. Quando fai presente che non ce la fai, ti viene risposto che chi si lamenta delle sue mansioni fa la vittima e che i ritmi lavorativi andranno peggiorando. Attraverso il dare ordini e il riempire di lavoro fino all’inverosimile, con tanto di rimprovero quando commetti un errore (normale sbagliare per un essere umano, per fare mille cose insieme si fanno male!), il “comandare” diventa un modo patetico di delegare responsabilità.
Dinamica che riflette un distorto transfer nel lavoro di tutti gli aspetti deliranti dell’altrettanto patetica vita di questi mobbers, la cui richezza materiale è inversamente proporzionale alla loro ricchezza morale: “La mia vita fa schifo. Sono il tuo superiore. Attraverso il lavoro, in realtà, è la mia vita disturbata che ti sto mettendo in mano. Tappami i buchi e dove sbagli è colpa tua.”
Manager? No, narcisista
Attraverso questa confessione, vorrei solo far notare come in molti posti di lavoro le mansioni manageriali e di dirigenza siano affidate a persone gravemente affette dal disturbo narcisistico della personalità, che abusano degli altri e della loro necessità di lavorare per mantenere intatta l’immagine megalomane che hanno di sé stessi. Non avendo scelta, acconsentiamo e contemporaneamente rafforziamo l’aspetto patologico di questi soggetti.
Sono una persona, non un mobile da ufficio
Non posso parlare con nessuno di quello che succede. Da noi non esiste alcuno sportello antimobbing. Interfacciarsi dieci ore della giornata con capi di questo genere è destabilizzante. Se provassi a parlarne con gli psicologi che dovrebbero farci da consulenti, con il mio background di disordini alimentari verrei fatta passare per matta e questo si tradurrebbe in ulteriore violenza psicologica.
Essere considerata una macchina, un indirizzo e-mail è spersonalizzante. Io sono una persona. Non un mobile da ufficio. Sono una persona sensibile, non debole. Ma è come se non esistessi. Va bene solo quando il lavoro è fatto.
Piango da sola dentro il bagno. Scappo lì quando sento che sto per scoppiare; e, anche quando visibilmente non mi reggo in piedi, nessuno mi chiede mai: come stai?
Il mio ufficio? Un corridoio
Dopo tanti anni ancora non mi si saluta la mattina. Sono solo un tecnico. Il lavoro di parola è più importante. Non mi conoscono per niente: ho tanti di quegli interessi… Con i quali purtroppo non riuscivo a vivere. L’arte non paga il mutuo, specie se vivi da sola. Ho dovuto imparare un nuovo lavoro. Qui mi ha portato. Sì, ho i soldi. Non so cosa farci, però, quando la salute se ne va.
Lo stress è già difficilmente tollerabile per i “normali”, figuriamoci per chi ha un disordine alimentare, che amplifica ogni piccola emozione, senza il filtro di una pelle che non c’è. Che ti manca o che hai perso, un giorno quando, senza neanche accorgertene, sei cresciuta.
Sto fissa sulla sedia, in un corridoio, ebbene sì, un corridoio, davanti ad un computer, dalle 8:30 del mattino fino alle 19:30 della sera, o anche le 20:00. Eppure nessuno si accorge della mia presenza. È terribile.
Si dice che il lavoro nobiliti l’uomo… Solo che io non vedo l’uomo.